La Repubblica 17.2.09
Una cosa senza proprietario
Il presupposto dello scontro istituzionale sul caso Englaro era che, non potendo più essere proprio, il possesso di quel corpo dovesse essere trasferito in altre mani come avviene per tutte le cose che perdono il proprietario naturale
Può una persona "appartenere" a un altro?
Il conflitto e la nuda vita
di Roberto Esposito
È difficile sfuggire alla sensazione di un nesso oscuro tra vicende, pure così diverse, come quella che si è consumata intorno al corpo morente di Eluana Englaro e la violenza inflitta quotidianamente al corpo di giovani donne stuprate. Oggi è fin troppo ovvio catalogare il primo caso sotto la rubrica di biopolitica. Ma in tal modo non si è ancora arrivati al fondo di evento troppo inquietante per non sollecitare una riflessione più profonda, che in qualche modo tocca anche la questione delle violenze carnali.
In realtà, l´oggetto della contesa politica e giuridica relativa ad Eluana non è stata una forma di vita, nel senso pieno che già i Greci conferivano all´espressione "bios", ma quella vita senza forma e qualità che essi chiamavano piuttosto "zoé". Agli inizi dell´Ottocento il grande fisiologo francese Xavier Bichat ripropose a suo modo questa differenza capitale, distinguendo una vita di relazione destinata alle prestazioni superiori ed una vita puramente vegetativa, ridotta alla circolazione del sangue e alle funzioni respiratoria e digestiva, del tutto irriflessa ed automatica. Una "vita di dentro", egli aggiungeva riferendosi a quest´ultima, capace di durare più a lungo di quella "di fuori", come dimostra il fatto che per qualche tempo le unghie e i capelli continuano a crescere impercettibilmente anche dopo la morte.
A questa vita residua, non più propriamente tale, perché situata dopo, o prima, della vita di relazione, Walter Benjamin dette il nome di "nuda vita", cogliendo in essa il luogo estremo su cui, come nel caso mitico di Niobe, può scaricarsi la violenza degli dei. Ma, evidentemente, non solo di essi. Perché il dato più impressionante di quanto è appena successo è che proprio su questa "nuda vita", entrata in una zona di indistinzione con la morte, si sono scontrati i rappresentanti dello Stato, della Chiesa e della magistratura con una violenza senza precedenti. Ad essere disputata non è stata, come si dice, la vita, ma un corpo inanimato � ridotto allo stato ultimo di semplice materia vivente. Su di esso i pubblici poteri hanno reclamato la decisione ultima, cogliendo tutta la rilevanza di questa prerogativa. Il presupposto di tale scontro istituzionale era che, non potendo più appartenere a se stesso perché privo di capacità soggettiva, il possesso di quel corpo dovesse essere trasferito in altre mani, come avviene per tutte le cose che perdono il proprietario naturale. E ciò, paradossalmente, nel momento stesso in cui si dichiarava l´assoluta l´indisponibilità, e perfino la sacralità, della vita che continuava a palpitare dentro di esso.
È a questo tragico grumo di antinomie che conviene misurarsi se si vuole penetrare davvero dentro la scatola nera di ciò che da qualche tempo, forse troppo facilmente, abbiamo iniziato a indicare con il termine "biopolitica". D´altra parte che, contrariamente a quanto pure afferma il diritto, il corpo umano possa essere ridotto al rango della cosa è l´esito inevitabile dello stesso linguaggio giuridico di origine romana, delle sue ancora operanti procedure di selezione e di esclusione. Conosciamo tutti il rilievo, e anche l´enfasi, con cui da molte parti si dichiara il valore assoluto dell´idea di persona � intesa come la garanzia contro qualsiasi attentato alla dignità dell´essere umano.
Eppure basta poco ad accorgersi che, nella storia antica e in quella recente, questi due termini � persona ed essere umano � non siano mai stati considerati pienamente coincidenti. È sempre esistito un resto della vita trattenuto fuori dal recinto, concettuale e simbolico, della persona. Una volta identificata quest´ultima con la parte razionale e volontaria dell´essere vivente, tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di "avere", piuttosto che di "essere", un corpo.
Ma se, nella fase terminale della vita, il corpo è assimilabile a una cosa, esso dovrà avere, come tutte le cose, un proprietario. Chi deve essere considerato tale quando si spegne il soggetto che lo abita? Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia? È sulla risposta a questa domanda che teologia, politica e diritto sono entrati in una collisione inevitabile a partire dal momento in cui la vita umana è diventata non solo il luogo di ogni decisione pubblicamente significativa, ma la fonte di legittimazione di ogni tipo di potere. Ad essere in gioco è la separazione, sempre rinnovata, tra forma di vita e nuda vita, tra persona e corpo. È intorno a tale limite oscillante che ruota vertiginosamente l´attuale regime biopolitico. Finché non modificheremo radicalmente il nostro linguaggio, i termini e i concetti che ancora adoperiamo, resteremo immobili davanti a questa soglia � senza sapere andare avanti, senza potere tornare indietro.
Una cosa senza proprietario
Il presupposto dello scontro istituzionale sul caso Englaro era che, non potendo più essere proprio, il possesso di quel corpo dovesse essere trasferito in altre mani come avviene per tutte le cose che perdono il proprietario naturale
Può una persona "appartenere" a un altro?
Il conflitto e la nuda vita
di Roberto Esposito
È difficile sfuggire alla sensazione di un nesso oscuro tra vicende, pure così diverse, come quella che si è consumata intorno al corpo morente di Eluana Englaro e la violenza inflitta quotidianamente al corpo di giovani donne stuprate. Oggi è fin troppo ovvio catalogare il primo caso sotto la rubrica di biopolitica. Ma in tal modo non si è ancora arrivati al fondo di evento troppo inquietante per non sollecitare una riflessione più profonda, che in qualche modo tocca anche la questione delle violenze carnali.
In realtà, l´oggetto della contesa politica e giuridica relativa ad Eluana non è stata una forma di vita, nel senso pieno che già i Greci conferivano all´espressione "bios", ma quella vita senza forma e qualità che essi chiamavano piuttosto "zoé". Agli inizi dell´Ottocento il grande fisiologo francese Xavier Bichat ripropose a suo modo questa differenza capitale, distinguendo una vita di relazione destinata alle prestazioni superiori ed una vita puramente vegetativa, ridotta alla circolazione del sangue e alle funzioni respiratoria e digestiva, del tutto irriflessa ed automatica. Una "vita di dentro", egli aggiungeva riferendosi a quest´ultima, capace di durare più a lungo di quella "di fuori", come dimostra il fatto che per qualche tempo le unghie e i capelli continuano a crescere impercettibilmente anche dopo la morte.
A questa vita residua, non più propriamente tale, perché situata dopo, o prima, della vita di relazione, Walter Benjamin dette il nome di "nuda vita", cogliendo in essa il luogo estremo su cui, come nel caso mitico di Niobe, può scaricarsi la violenza degli dei. Ma, evidentemente, non solo di essi. Perché il dato più impressionante di quanto è appena successo è che proprio su questa "nuda vita", entrata in una zona di indistinzione con la morte, si sono scontrati i rappresentanti dello Stato, della Chiesa e della magistratura con una violenza senza precedenti. Ad essere disputata non è stata, come si dice, la vita, ma un corpo inanimato � ridotto allo stato ultimo di semplice materia vivente. Su di esso i pubblici poteri hanno reclamato la decisione ultima, cogliendo tutta la rilevanza di questa prerogativa. Il presupposto di tale scontro istituzionale era che, non potendo più appartenere a se stesso perché privo di capacità soggettiva, il possesso di quel corpo dovesse essere trasferito in altre mani, come avviene per tutte le cose che perdono il proprietario naturale. E ciò, paradossalmente, nel momento stesso in cui si dichiarava l´assoluta l´indisponibilità, e perfino la sacralità, della vita che continuava a palpitare dentro di esso.
È a questo tragico grumo di antinomie che conviene misurarsi se si vuole penetrare davvero dentro la scatola nera di ciò che da qualche tempo, forse troppo facilmente, abbiamo iniziato a indicare con il termine "biopolitica". D´altra parte che, contrariamente a quanto pure afferma il diritto, il corpo umano possa essere ridotto al rango della cosa è l´esito inevitabile dello stesso linguaggio giuridico di origine romana, delle sue ancora operanti procedure di selezione e di esclusione. Conosciamo tutti il rilievo, e anche l´enfasi, con cui da molte parti si dichiara il valore assoluto dell´idea di persona � intesa come la garanzia contro qualsiasi attentato alla dignità dell´essere umano.
Eppure basta poco ad accorgersi che, nella storia antica e in quella recente, questi due termini � persona ed essere umano � non siano mai stati considerati pienamente coincidenti. È sempre esistito un resto della vita trattenuto fuori dal recinto, concettuale e simbolico, della persona. Una volta identificata quest´ultima con la parte razionale e volontaria dell´essere vivente, tutto ciò che rimane, vale a dire il suo stesso corpo, non può che scivolare nel regime della cosa. A riprova di ciò, anche nel linguaggio comune si afferma normalmente di "avere", piuttosto che di "essere", un corpo.
Ma se, nella fase terminale della vita, il corpo è assimilabile a una cosa, esso dovrà avere, come tutte le cose, un proprietario. Chi deve essere considerato tale quando si spegne il soggetto che lo abita? Dio, lo Stato, chi lo ha generato, chi lo ha in custodia? È sulla risposta a questa domanda che teologia, politica e diritto sono entrati in una collisione inevitabile a partire dal momento in cui la vita umana è diventata non solo il luogo di ogni decisione pubblicamente significativa, ma la fonte di legittimazione di ogni tipo di potere. Ad essere in gioco è la separazione, sempre rinnovata, tra forma di vita e nuda vita, tra persona e corpo. È intorno a tale limite oscillante che ruota vertiginosamente l´attuale regime biopolitico. Finché non modificheremo radicalmente il nostro linguaggio, i termini e i concetti che ancora adoperiamo, resteremo immobili davanti a questa soglia � senza sapere andare avanti, senza potere tornare indietro.
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