Corriere della Sera 23.2.09
La legge sul fine vita. I confini della politica
di Angelo Panebianco
La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini.
L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini.
Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione.
Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza.
Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii.
Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato.
La legge sul fine vita. I confini della politica
di Angelo Panebianco
La frittata è fatta. Non c'è modo di tornare indietro. Lo scontro sui contenuti della legge che deve, con delicato linguaggio burocratico, «regolamentare il fine vita » dilanierà il Paese per molti anni. Forse era inevitabile. Come poteva un Paese iper politicizzato come il nostro non arrivare, prima o poi, a politicizzare anche la morte? Resta da sapere come verrà, alla fine, regolamentato il fine vita, se con la legge voluta dai neo guelfi o con il referendum contro la legge brandito dai neo ghibellini.
L'aspetto più impressionante della feroce disputa in atto è l'esibizione, da parte dei vari esponenti delle due fazioni, di certezze, oltre che di muscoli. Una volta tolti dal mazzo coloro che sono di tempra troppo debole per essere in grado di coltivare il dubbio, che dire degli altri? Come possono esibire certezze in una materia che per sua natura non le ammette? Pur con le dovute eccezioni, molti, mi sembra, stanno esibendo certezze per ragioni politico- strumentali. Come sempre accade quando una questione viene politicizzata, essa entra nel tritacarne delle logiche di schieramento. La questione del fine vita è ora diventata un'altra posta in gioco nel conflitto fra berlusconiani e antiberlusconiani: un conflitto transitorio, contingente, che tuttavia, nel caso in questione, va a incastrarsi in una divisione antica, quella fra guelfi e ghibellini.
Due madornali errori di valutazione, a me pare, sono stati commessi da chi ha voluto gettare fra i piedi del Paese una questione di tale portata. Il primo è stato di avere sopravvalutato le capacità della democrazia di gestire questo problema. La democrazia può occuparsi di tutto, tranne che dell'essenziale (le questioni della vita e della morte, appunto). Non è attrezzata per fronteggiare un conflitto filosofico radicale fra opposte concezioni della vita.
I fautori della «sacralità della vita», i neo guelfi, sbagliano di grosso a volere imporre per legge a tutti i loro valori (la sacralità della vita è un concetto privo di senso per chi non crede in Dio). Facendo ciò essi attentano a quel pluralismo degli orientamenti di cui solo può vivere una società liberale. Ma sbagliano anche i fautori della «libertà di scelta». Costoro la fanno troppo semplice, banalizzano in maniera inaccettabile il problema. Non è vero che essi si limitano a rivendicare un «diritto» che i credenti sono liberi di non praticare. Perché pretendendo una legge che riconosca quel diritto essi, per ciò stesso, intendono fare prevalere la loro concezione della vita e della morte, imporre il principio secondo cui la decisione sulla morte di un uomo è nell'esclusiva e libera disponibilità di quell'uomo. Un principio che non può non ripugnare ai fautori della diversa e opposta concezione.
Non è un caso che anche nelle società più liberali, dove i diritti di libertà sono più solidi (e più rispettati che da noi), su questi temi possano esplodere conflitti micidiali. Non stiamo parlando di un diritto qualitativamente simile ai più tradizionali diritti di libertà. Proprio perché la democrazia non è fatta per fronteggiare conflitti filosofici di questa portata, sia le prassi ispirate al principio della sacralità della vita sia quelle ispirate al principio opposto della libertà di scelta, dovevano (come si è sempre fatto) rimanere «al di qua» dello spazio pubblico, affidate al silenzio, agli sguardi e alle parole a mezza bocca scambiate fra i medici e gli assistiti o fra i medici e le persone affettivamente vicine agli assistiti. In un precedente intervento («Quel silenzioso terzo partito », Corriere del 9 febbraio) avevo parlato dell'importanza di preservare una zona grigia protetta (così mi ero espresso) da una «necessaria ipocrisia». Qualche amico, pur favorevole alle mie tesi, ha criticato l'uso del termine ipocrisia. Penso invece che fosse appropriato. In queste questioni l'ipocrisia non è, come si suole dire, una manifestazione del vizio che rende omaggio alla virtù. È essa stessa virtù. È la virtù grazie alla quale si possono cercare empiricamente (al riparo dai riflettori) soluzioni atte a ridurre le sofferenze dei malati senza offendere la sensibilità e le credenze delle persone coinvolte. Contemporaneamente, è la virtù che consente di non trasferire nella pubblica piazza ciò che non è assolutamente idoneo ad essere esposto in piazza.
Il secondo micidiale errore è stato quello di credere che solo la «legge» possa salvarci dall'arbitrio, dei medici o di chiunque altro. È un effetto di quell'ideologia italiana che assume che tutti i problemi debbano avere una soluzione «giuridica». È il riflesso di un Paese schizofrenico che, da un lato, ha della legge una visione cinica («la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici», recita il detto) e, dall'altro, non sa evitare di farne un feticcio. Ma in un ambito come quello qui considerato la legge non riduce l'area dell'arbitrio. Anche ammesso, e non concesso, che possa eliminare le forme di abuso fin qui forse praticate, essa ne genera comunque altre. La legge è uno strumento troppo grossolano, troppo rozzo: pretendendo di imporre uguale trattamento in casi diversissimi, essa crea, più o meno involontariamente, le condizioni per nuovi arbitrii.
Senza contare che la legge, di sicuro, è il luogo più inadatto, più inospitale, per depositarvi visioni ultime della vita. Checché ne pensino i feticisti della legge, ci sono molte più cose in cielo e in terra di quante non ne possano contenere i loro codici e i loro commi. Qui siamo dunque, purtroppo. E non ne usciamo. Due ragioni, o due torti, si fronteggiano. Il problema verrà affrontato a colpi di maggioranza (e nessuno, per favore, se ne lamenti: è la democrazia, bellezza). Vorrà dire che faremo l'alternanza, a seconda di chi vince e di chi perde le elezioni, anche delle concezioni della vita e della morte. Davvero un bel risultato.
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