l’Unità 19.2.09
Eluana: ma che c’entra l’eutanasia
di Vittorio Angiolini, professore di diritto costituzionale
Moderiamo il linguaggio. In tanti Paesi dell’Europa e dell’Occidente ciò che i Giudici hanno autorizzato per Eluana Englaro, non è considerato eutanasia, bensì interruzione dei trattamenti di cura invasivi dell’altrui persona, i quali, se possono essere rifiutati da chi è in grado di opporsi consapevolmente, non possono essere praticati ad oltranza su chi, incapace di autodeterminarsi, è più bisognoso di tutela.
Questo distinguo giuridico è talora liquidato come sofisma. L’interrompere la nutrizione di Eluana Englaro è stato da taluni paragonato a una iniezione letale, sulla premessa, in apparenza limpida, che occorra incondizionatamente aiutare ed essere solidali. Ma la distinzione tra l’uccidere, anche di “buona morte”, e l’interrompere la cura ha, in diritto, solide basi. Al contrario dell’eutanasia come “suicidio assistito” (ammessa in quanto tale, ad esempio, in Belgio e in Olanda), l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale non comporta che il medico sia chiamato a provocare la morte, ma semmai sottolinea che le sue competenze non possono dargli titolo per intromettersi nella sfera altrui. È stato sostenuto, anche per Eluana Englaro, che l’interruzione dei trattamenti sarebbe stata contraria a prudenza, per il carattere sempre perfettibile della verità scientifica; e si è dimenticato, però, che nutrendola senza esserne richiesti, i medici l’hanno costretta a vivere per lungo tempo in una condizione disperata. La questione è se, nel dubitare, si debba assumere il punto di vista del medico curante oppure, come parrebbe più congruo, quello del paziente. Il punto di vista del medico curante, in nome della precauzione, ci fa correre il rischio di trasformare l’uomo di scienza in un essere sovrumano, chiamato a prendere sulla vita di un altro decisioni non sostenute dal suo sapere scientifico. Quando, come nel caso di Eluana Englaro, la scienza non dimostri di poter corrispondere alle esigenze di chi dovrebbe essere curato, il consegnare la decisione sul da farsi al medico significa dare al medico stesso, come uomo tra altri uomini, il pre-potere di decidere, senza ragione, sulla sorte e sulla vita altrui. Il limite alla cura, e dunque l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale, vanno stabiliti per lo stesso motivo per cui si reputa di dover vietare l’“eutanasia”. L’obiettivo è scongiurare che un uomo, qualsiasi uomo, con l’intento genuino di salvare si arroghi un potere arbitrario sulla vita di altre persone. Nel respingere la “cultura dell’abbandono” e nell’essere solidali, bisogna rendersi conto che la forma in apparenza più avanzata di solidarietà, tradotta in divieto assoluto di dismettere la cura, può finire per confondere la stessa cura dell’altro con l’opprimerne la personalità, la libertà individuale con il potere oppressivo della stessa, la decisione scientifica con la rivendicazione di onnipotenza.
Eluana: ma che c’entra l’eutanasia
di Vittorio Angiolini, professore di diritto costituzionale
Moderiamo il linguaggio. In tanti Paesi dell’Europa e dell’Occidente ciò che i Giudici hanno autorizzato per Eluana Englaro, non è considerato eutanasia, bensì interruzione dei trattamenti di cura invasivi dell’altrui persona, i quali, se possono essere rifiutati da chi è in grado di opporsi consapevolmente, non possono essere praticati ad oltranza su chi, incapace di autodeterminarsi, è più bisognoso di tutela.
Questo distinguo giuridico è talora liquidato come sofisma. L’interrompere la nutrizione di Eluana Englaro è stato da taluni paragonato a una iniezione letale, sulla premessa, in apparenza limpida, che occorra incondizionatamente aiutare ed essere solidali. Ma la distinzione tra l’uccidere, anche di “buona morte”, e l’interrompere la cura ha, in diritto, solide basi. Al contrario dell’eutanasia come “suicidio assistito” (ammessa in quanto tale, ad esempio, in Belgio e in Olanda), l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale non comporta che il medico sia chiamato a provocare la morte, ma semmai sottolinea che le sue competenze non possono dargli titolo per intromettersi nella sfera altrui. È stato sostenuto, anche per Eluana Englaro, che l’interruzione dei trattamenti sarebbe stata contraria a prudenza, per il carattere sempre perfettibile della verità scientifica; e si è dimenticato, però, che nutrendola senza esserne richiesti, i medici l’hanno costretta a vivere per lungo tempo in una condizione disperata. La questione è se, nel dubitare, si debba assumere il punto di vista del medico curante oppure, come parrebbe più congruo, quello del paziente. Il punto di vista del medico curante, in nome della precauzione, ci fa correre il rischio di trasformare l’uomo di scienza in un essere sovrumano, chiamato a prendere sulla vita di un altro decisioni non sostenute dal suo sapere scientifico. Quando, come nel caso di Eluana Englaro, la scienza non dimostri di poter corrispondere alle esigenze di chi dovrebbe essere curato, il consegnare la decisione sul da farsi al medico significa dare al medico stesso, come uomo tra altri uomini, il pre-potere di decidere, senza ragione, sulla sorte e sulla vita altrui. Il limite alla cura, e dunque l’interruzione di trattamenti anche di sostegno vitale, vanno stabiliti per lo stesso motivo per cui si reputa di dover vietare l’“eutanasia”. L’obiettivo è scongiurare che un uomo, qualsiasi uomo, con l’intento genuino di salvare si arroghi un potere arbitrario sulla vita di altre persone. Nel respingere la “cultura dell’abbandono” e nell’essere solidali, bisogna rendersi conto che la forma in apparenza più avanzata di solidarietà, tradotta in divieto assoluto di dismettere la cura, può finire per confondere la stessa cura dell’altro con l’opprimerne la personalità, la libertà individuale con il potere oppressivo della stessa, la decisione scientifica con la rivendicazione di onnipotenza.
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