lunedì 30 marzo 2009

La fine della vita - La moralità deIl’eutanasia

James Rachels
La fine della vita - La moralità deIl’eutanasia
Edizioni Sonda, pagg. 361,
a cura di Valentina Barbero

Contro l’intera tradizione occidentale che nel corso dei secoli ha teorizzato su moralità e immoralità del togliere la vita, il filosofo americano James Rachels azzarda una posizione radicalmente nuova, destinata a suscitare scalpore ed interesse.
Rachels, docente di filosofia morale all’Università dell’Alabama, appartiene all’attivo filone della filosofia anglosassone contemporanea attento ai problemi dell’etica pratica e della bioetica in una prospettiva spesso vicina a quella dell’utilitarismo di Bentham e Mill.
Come Tom Reagan e Peter Singer, già noti al lettore italiano, ha partecipato al dibattito sui diritti degli animali, e dalla metà degli anni Settanta si occupa fra l’altro del riconoscimento morale e legale dell’eutanasia. Il libro pubblicato recentemente dalle Edizioni Sonda è il suo trattato più completo sull’argomento.
Pur riconoscendo che la teoria tradizionale, legata alla morale cristiana, riguardo al diritto alla vita è quella più sistematica ed influente, Rachels ne scardina le basi mettendone in luce le contraddizioni e costruendo su nuovi pressuposti, totalmente laici, una rigorosa teoria alternativa, decisamente degna di attenzione.
Nell’analisi di Rachels il precetto tradizionale non uccidere prevede una serie di distinzioni. Le prime due forniscono un criterio di discriminazione secondo il quale sono protette solo alcune categorie di esseri umani, ma lo è uccidere gli animali; e mentre non è lecito uccidere esseri umani innocenti, lo è uccidere persone non innocenti (si veda la difesa tradizionale della pena di morte e delle uccisioni del nemico in guerra). Sono poi tradizionalmente ammesse alcune eccezioni: è moralmente ammissibile l’atto non intenzionale contro quello intenzionale, il lasciar morire contro l’uccidere, e ancora il mancato impiego di cure mediche straordinarie (accanimento terapeutico) contro l’obbligo delle cure ordinarie.
Al contrario, la posizione di Rachels ha un’unico presupposto fondamentale, accettato il quale crollano tutte le distinzioni tradizionali, la differenza fra avere una vita ed essere vivi. Il diritto sacro ed inviolabile di ogni essere vivente non è il diritto ad essere vivi in senso biologico, ma il diritto ad avere una vita propria, intesa in senso biografico (“la somma delle nostre aspirazioni, decisioni, attività, progetti e relazioni umane”, p. 11).
Quando la possibilità di una vita biografica è chiusa per sempre, non ha senso proteggere la vita.
La regola morale non uccidere viene così riformulata: non è lecito uccidere se si danneggia una vita in senso biografico.
Su questa base, e attraverso numerosi casi, Rachels giustifica in primo luogo la moralità dell’eutanasia involontaria: “Dal punto di vista di un individuo vivente, essere vivo non ha altra importanza che costituire la possibilità di avere una vita.
In assenza di una vita cosciente, è indifferente per il soggetto ditale vita vivere o morire” (p. 33) — e intende i vegetali umani, i malati in corna irreversibile, e i neonati gravemente malformati, per i quali è esemplare il noto caso di Baby Jane Doe.
Come già accennato, Rachels si rifà al principio etico fondamentale dell’utilitarismo: è morale fare ciò che è meglio per chi viene coinvolto dal nostro comportamento, è immorale causare sofferenze. Non a caso gli utilitaristi sono stati i primi filosofi moderni a diffendere l’eutanasia. Dal loro punto di vista l’uccisione di un essere vivente non è un male di per sé, ma solo se comporta conseguenze negative su chi viene ucciso o su chi gli sta vicino, in primo luogo se priva l’ucciso della possibilità di una vita futura piacevole.
A questo stesso principio si ricollega anche la giustificazione dell’eutanasia volontaria, praticata su soggetti, malati terminali coscienti, che la richiedono con lo scopo fondamentale di evitarsi inutili quanto atroci sofferenze. Il caso tipico presentato dall’autore è quello di Matthew Donnelly, malato di cancro alla pelle, che ormai infermo, cieco, il corpo completamente martoriato vittima di una perpetua agonia, chiese ed ottenne dal fratello di essere ucciso con un colpo di pistola. L’azione del fratello, colpevole sia davanti alla legge che alla morale tradizionale, benché mossa da comprensibile pietà, nella prospettiva di Rachels non solo è accettabile ma altamente morale. Nonostante i medici avessero dato a Donnelly ancora un anno di vita, quali prospettive aveva per il futuro? Perché non liberarlo da inutili sofferenze, e da un anno di esistenza che alla sua vita biografica non avrebbe aggiunto nulla di positivo?
La sfida di Rachels coinvolge tutti quanti: chi può limitarsi a giudicare, come chi ha la disgrazia di trovarsi a dover scegliere. In particolare, il libro esamina con ampiezza e lucidità tutte le implicazioni della questione, tanto sul piano pratico quanto su quello emotivo e della coscienza, non solo per i parenti dei malati, spesso protagonisti dei più clamorosi casi di eutanasia, ma per il personale medico ed ospedaliero che da sempre è coinvolto.
Nell’ultimo capitolo l’autore affronta il tema della legalizzazione, proponendo per l’eutanasia uno status giuridico simile a quello della legittima difesa.
Certamente la sfida più provocatoria è quella rivolta al senso comune religioso, che condanna l’eutanasia come interferenza nei piani di Dio, cui spetta la prerogativa di decidere della vita e della morte. Perché, chiede Rachels, le cure mediche non sono considerate un’interferenza? Perché, se la sofferenza viene da Dio, la si allevia con i farmaci? Perché fra i tanti mali minori accettati dal senso comune non può rientrare anche l’eutanasia?

Da Riza scienze, dicembre 1989, pp. 86-89

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