l’Unità 10.3.09
Testamento biologico. I padroni dell’ultima parola
di Luigi Manconi
Ogni giorno ha la sua pena. La vicenda dell’aborto della bambina brasiliana lacera, ancora una volta, le coscienze e le intelligenze. Ma è un bene che la discussione pubblica su questi temi cruciali proceda. Qualche giorno fa, Avvenire ha ripreso un dibattito assai interessante che si è sviluppato a partire da un’affermazione di Dorina Bianchi. Intervistata dal Giornale, la parlamentare democratica, aveva affermato testualmente che la vita umana appartiene «ai cittadini e alla collettività». La Bianchi, a quanto so, non ha né rettificato né meglio chiarito il suo pensiero, che si presta inevitabilmente a un’interpretazione in chiave statalistico-autoritaria. E in effetti, gli argomenti che il centrodestra (non Dorina Bianchi) porta a sostegno del proprio disegno di legge sul Testamento biologico si ispirano a un’idea organicistica e illiberale del rapporto tra individuo e società. Da qui le critiche che le parole della Bianchi hanno suscitato, ma anche l’utilità di una discussione che sia finalmente priva di pregiudizi. Antonio Polito si è detto contrario all’«assolutismo libertario», affermando che «la vita non è esattamente una proprietà privata, ma un bene collettivo». D’accordo, a patto che quel “collettivo” sia letto come proposto da Anna Maria Riviello sul Manifesto: «la tua vita certo è tua ed è irripetibile, ma ti appartiene non alla maniera di un manufatto. È tua ma è anche storia di altri e della tua famiglia, a partire dal progetto e dall’accettazione materna». E ancora: la decisione di fine vita verrà presa da ciascuna persona «non da sola ma con le persone che la amano e che hanno cura di lei». Tommaso Gomez che, su Avvenire, riassume i termini della questione, definisce la lettura della Riviello con una classificazione derisoria: «autodeterminazione comunitaria». La formula è risibile (e non è della Riviello), ma il cuore della discussione è proprio questo ed è così riassumibile: la vita umana appartiene a chi ne è titolare - l’individuo, quindi - ma quella vita non si svolge (ci auguriamo) nel vuoto, in uno spazio deserto, nell’assenza di rapporti, comunicazioni, scambi. La soggettività primaria e profonda della persona è nella relazione con gli altri (Lévinas: l’identità è nel rapporto): dunque, agli altri, alle esperienze condivise, al “mondo vitale” nel quale esisto, chiederò soccorso per decidere sulle “cose ultime”. Chiederò con-passione: ovvero condivisione del dolore e della scelta. Ma finché ciò sarà possibile e finché avrò il privilegio di una vita di relazione. Se e quando la mia decisione dovesse entrare in conflitto con quella di chi mi è caro e a cui sono caro, sarò io (e chi altri?) a scegliere.
Testamento biologico. I padroni dell’ultima parola
di Luigi Manconi
Ogni giorno ha la sua pena. La vicenda dell’aborto della bambina brasiliana lacera, ancora una volta, le coscienze e le intelligenze. Ma è un bene che la discussione pubblica su questi temi cruciali proceda. Qualche giorno fa, Avvenire ha ripreso un dibattito assai interessante che si è sviluppato a partire da un’affermazione di Dorina Bianchi. Intervistata dal Giornale, la parlamentare democratica, aveva affermato testualmente che la vita umana appartiene «ai cittadini e alla collettività». La Bianchi, a quanto so, non ha né rettificato né meglio chiarito il suo pensiero, che si presta inevitabilmente a un’interpretazione in chiave statalistico-autoritaria. E in effetti, gli argomenti che il centrodestra (non Dorina Bianchi) porta a sostegno del proprio disegno di legge sul Testamento biologico si ispirano a un’idea organicistica e illiberale del rapporto tra individuo e società. Da qui le critiche che le parole della Bianchi hanno suscitato, ma anche l’utilità di una discussione che sia finalmente priva di pregiudizi. Antonio Polito si è detto contrario all’«assolutismo libertario», affermando che «la vita non è esattamente una proprietà privata, ma un bene collettivo». D’accordo, a patto che quel “collettivo” sia letto come proposto da Anna Maria Riviello sul Manifesto: «la tua vita certo è tua ed è irripetibile, ma ti appartiene non alla maniera di un manufatto. È tua ma è anche storia di altri e della tua famiglia, a partire dal progetto e dall’accettazione materna». E ancora: la decisione di fine vita verrà presa da ciascuna persona «non da sola ma con le persone che la amano e che hanno cura di lei». Tommaso Gomez che, su Avvenire, riassume i termini della questione, definisce la lettura della Riviello con una classificazione derisoria: «autodeterminazione comunitaria». La formula è risibile (e non è della Riviello), ma il cuore della discussione è proprio questo ed è così riassumibile: la vita umana appartiene a chi ne è titolare - l’individuo, quindi - ma quella vita non si svolge (ci auguriamo) nel vuoto, in uno spazio deserto, nell’assenza di rapporti, comunicazioni, scambi. La soggettività primaria e profonda della persona è nella relazione con gli altri (Lévinas: l’identità è nel rapporto): dunque, agli altri, alle esperienze condivise, al “mondo vitale” nel quale esisto, chiederò soccorso per decidere sulle “cose ultime”. Chiederò con-passione: ovvero condivisione del dolore e della scelta. Ma finché ciò sarà possibile e finché avrò il privilegio di una vita di relazione. Se e quando la mia decisione dovesse entrare in conflitto con quella di chi mi è caro e a cui sono caro, sarò io (e chi altri?) a scegliere.
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