Biotestamento, quando a decidere è la politica
Il Messaggero del 27 marzo 2009, pag. 22
Sergio Talamo
Ormai lo so, in quest`epoca non potrò morire come gli indiani d`America, con la fine che non è un abisso ma una prateria, con me che mi allontano senza che corrano né il mio cuore né le mie gambe. E neppure potrò morire come Remy, il professore delle Invasioni Barbariche, mentre ho un ago nelle vene e stringo la mano della mia donna, e le mie figlie mi dicono grazie, e i miei amici mi guardano come se avessimo vent`anni, e il lago sembra addormentarsi insieme a me. E neppure come Thomas, il medico di Milan Kundera, avvolto in una nuvola di luce bianca dopo aver attraversato la primavera e l`autunno di Praga da uomo che non si piega a nulla. E forse neppure come Piergiorgio Welby, che salutò la vita facendole una dichiarazione d`amore: «Vita è anche un giorno di pioggia, anche la tua donna che ti lascia». Non potrò, perché in quest`epoca la politica ha deciso per me. Ha deciso che la mia volontà non basterà, neppure se oggi io la proclamo limpida, fremente, incondizionata; neppure se domani fosse la volontà di un uomo che non può più parlare né pensare. Com`è strana, questa mia epoca. È il tempo dove tutto è lecito fuorché la libertà di scegliere fino a che punto la vita meriti questo nome. Dicono che infilarmi nel colpo un tubo che mi alimenta, e un altro che mi fa respirare, e un altro che mi fa fare pipì, sia la stessa cosa che curarmi. Dicono che se mi inchioderanno ad un letto, allora la mia vita non sarà più mia: sarà dello Stato. Dicono che quel giorno rischierò di finire triturato fra giudici e giornali, fra le lacrime sincere di pochi e quelle insincere di tanti. Dicono di fare tutto questo in nome di Dio. Eppure è proprio perché c`è Lui che morire mi sa tanto di un semplice passaggio, di un sogno più lungo del solito, di una musica che per Roberto Vecchioni è della viola d`inverno. Proprio perché ci credo davvero, a quella promessa intrisa di mistero, a quel lume che si accese da bambino e non si spegnerà mai... proprio per questo voglio decidere oggi, o domani, o a 120 anni come adombra Veronesi, di andare con la mente intatta e fiduciosa incontro a ciò che verrà. Non voglio l`umiliazione inutile di esserci senza vivere, senza ciò che mi fa uomo. Non voglio che il mio futuro sia un foglio spiegazzato e accarezzato da una suora. Non voglio che la mia dignità si frantumi fra i medicinali accumulati sul comodino. Non voglio che il mio destino, e il destino di coloro che arino, siano decisi da un accordo tra maggioranza e opposizione: nel nome di Dio, sono finito nelle mani, dei capigruppo Pd e Pdl... Gli uni vogliono togliermi l`acqua, gli altri darmela a forza, nessuno che pensi a rispettare la mia volontà di morire senza torture. Mi chiedo perché questa mia epoca abbia così paura della morte, e perché la nasconda dietro la finta retorica della vita a tutti i costi. Non so più a chi dirlo, o sussurrarlo o gridarlo, che se sarà il caso voglio morire in piedi perché io non ho paura della morte: ho molta più paura di voi che ne avete paura. Di voi che nel nome della persona piazzate la politica e la burocrazia, e magari anche le telecamere, sul corpo di uno che muore e sull`anima di chi gli resta vicino. Ma io non voglio spettacoli attorno al mio letto, perché l`unico spettacolo dev`essere il film del mio ricordo e lo sguardo di chi ho amato, per così poco in terra e per sempre in cielo. A chi posso dirlo? Socrate, almeno, aveva Critone e una cicuta che ha insegnato alla gente venuta dopo, nei millenni, che a volte un valore conta più della vita. Ma io, oggi, posso dirlo solo al vento e al medico di base. E, se un giorno mi toccherà, potrò soltanto urlare con la mente «lasciatemi stare» mentre un dottorino zelante si sentirà a posto con la coscienza perché sta applicando la legge.
Il Messaggero del 27 marzo 2009, pag. 22
Sergio Talamo
Ormai lo so, in quest`epoca non potrò morire come gli indiani d`America, con la fine che non è un abisso ma una prateria, con me che mi allontano senza che corrano né il mio cuore né le mie gambe. E neppure potrò morire come Remy, il professore delle Invasioni Barbariche, mentre ho un ago nelle vene e stringo la mano della mia donna, e le mie figlie mi dicono grazie, e i miei amici mi guardano come se avessimo vent`anni, e il lago sembra addormentarsi insieme a me. E neppure come Thomas, il medico di Milan Kundera, avvolto in una nuvola di luce bianca dopo aver attraversato la primavera e l`autunno di Praga da uomo che non si piega a nulla. E forse neppure come Piergiorgio Welby, che salutò la vita facendole una dichiarazione d`amore: «Vita è anche un giorno di pioggia, anche la tua donna che ti lascia». Non potrò, perché in quest`epoca la politica ha deciso per me. Ha deciso che la mia volontà non basterà, neppure se oggi io la proclamo limpida, fremente, incondizionata; neppure se domani fosse la volontà di un uomo che non può più parlare né pensare. Com`è strana, questa mia epoca. È il tempo dove tutto è lecito fuorché la libertà di scegliere fino a che punto la vita meriti questo nome. Dicono che infilarmi nel colpo un tubo che mi alimenta, e un altro che mi fa respirare, e un altro che mi fa fare pipì, sia la stessa cosa che curarmi. Dicono che se mi inchioderanno ad un letto, allora la mia vita non sarà più mia: sarà dello Stato. Dicono che quel giorno rischierò di finire triturato fra giudici e giornali, fra le lacrime sincere di pochi e quelle insincere di tanti. Dicono di fare tutto questo in nome di Dio. Eppure è proprio perché c`è Lui che morire mi sa tanto di un semplice passaggio, di un sogno più lungo del solito, di una musica che per Roberto Vecchioni è della viola d`inverno. Proprio perché ci credo davvero, a quella promessa intrisa di mistero, a quel lume che si accese da bambino e non si spegnerà mai... proprio per questo voglio decidere oggi, o domani, o a 120 anni come adombra Veronesi, di andare con la mente intatta e fiduciosa incontro a ciò che verrà. Non voglio l`umiliazione inutile di esserci senza vivere, senza ciò che mi fa uomo. Non voglio che il mio futuro sia un foglio spiegazzato e accarezzato da una suora. Non voglio che la mia dignità si frantumi fra i medicinali accumulati sul comodino. Non voglio che il mio destino, e il destino di coloro che arino, siano decisi da un accordo tra maggioranza e opposizione: nel nome di Dio, sono finito nelle mani, dei capigruppo Pd e Pdl... Gli uni vogliono togliermi l`acqua, gli altri darmela a forza, nessuno che pensi a rispettare la mia volontà di morire senza torture. Mi chiedo perché questa mia epoca abbia così paura della morte, e perché la nasconda dietro la finta retorica della vita a tutti i costi. Non so più a chi dirlo, o sussurrarlo o gridarlo, che se sarà il caso voglio morire in piedi perché io non ho paura della morte: ho molta più paura di voi che ne avete paura. Di voi che nel nome della persona piazzate la politica e la burocrazia, e magari anche le telecamere, sul corpo di uno che muore e sull`anima di chi gli resta vicino. Ma io non voglio spettacoli attorno al mio letto, perché l`unico spettacolo dev`essere il film del mio ricordo e lo sguardo di chi ho amato, per così poco in terra e per sempre in cielo. A chi posso dirlo? Socrate, almeno, aveva Critone e una cicuta che ha insegnato alla gente venuta dopo, nei millenni, che a volte un valore conta più della vita. Ma io, oggi, posso dirlo solo al vento e al medico di base. E, se un giorno mi toccherà, potrò soltanto urlare con la mente «lasciatemi stare» mentre un dottorino zelante si sentirà a posto con la coscienza perché sta applicando la legge.
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