mercoledì 1 aprile 2009

«Alimentazione forzata? La legge non può ordinarci di tradire un paziente»

l’Unità 1.4.09
Medico rianimatore e autore del libro «Cosa sognano i pesci rossi»
Conversando con Marco Venturino
«Alimentazione forzata? La legge non può ordinarci di tradire un paziente»
Nessuna norma potrà costringere un medico a comportarsi contro coscienza: disobbediremo
di Luca Landò

Anche i pesci rossi nel loro piccolo si incazzano. Certo, la battuta riguardava le formiche, ma ascoltando Marco Venturino, medico e scrittore, il salto di specie è inevitabile. Colpa del suo «Cosa sognano i pesci rossi», il libro che quattro anni fa scosse il gelido mondo delle corsie d’ospedale e delle sale operatorie. E colpa della legge sul testamento biologico votata giovedì scorso al Senato. «Brutta legge, anzi pessima», dice Venturino, 52 anni, che oggi dirige la divisione anestesia e rianimazione dell’Istituto europeo di oncologia. «Quello che più mi fa scaldare di questa vicenda, però, è che si parla senza sapere e soprattutto si parla di cose che con la realtà non c’entrano nulla».
Prego?
«In questi giorni ne ho sentite di tutti i colori, ho assistito a dibattiti furibondi, ho visto sondini diventare più importanti dei pazienti. E ho avuto la conferma che la politica, questa politica è troppo lontana dai problemi veri».
E quali sono i problemi veri?
«Quelli che si vedono nelle corsie tutti i giorni. O meglio ancora, nelle sale di rianimazione, dove i pazienti sono in una zona di confine in cui bisogna entrare con molta attenzione e professionalità. E non con l’irruenza di una legge. Che c’entra la legge con la medicina?».
Certo, ma con questa norma i medici avranno dei vincoli ben precisi, non potranno ad esempio interrompere l’alimentazione e l’idratazione artificiale in pazienti in stato vegetativo permanente.
«Voglio vederli i carabinieri davanti alla clinica che mi obbligano a fare qualcosa che ritengo sbagliato. E poi esiste sempre l’obiezione di coscienza, quella non la possono togliere a nessuno, soprattutto ai medici. Sa cosa le dico? Che non cambierà un bel niente».
Disobbedienza professionale?
«Sto semplicemente dicendo che i medici continueranno a fare i medici. E non può essere un magistrato a dirmi quel che devo fare. Come diceva Shakespeare: tanto rumore per nulla. Anche a proposito delle volontà anticipate».
Non mi dica che è perplesso anche da quelle.
«Ovviamente no, sono fondamentali. Ma sarebbe altrettanto fondamentale conoscere la realtà dei fatti. Negli Stati Uniti quelle dichiarazioni vengono redatte da una percentuale che da Stato a Stato varia tra il 4 e il 20% della popolazione. Nelle strutture di terapia intensiva poi, o non ci sono perché il paziente non le ha fatte, oppure esistono ma non arrivano in ospedale, oppure esistono e arrivano ma capita che il medico, in particolari situazioni, si comporti diversamente. Insomma, le dichiarazioni anticipate sono importanti ma da sole non sono, non possono essere la soluzione».
E quale sarebbe la soluzione?
«Un rapporto sempre più stretto tra medico e paziente: il consenso informato e il testamento biologico sono pratiche burocratiche necessarie ma non possono sostituirsi al rapporto di fiducia tra chi cura e chi è curato. La medicina, lo ripeto, non può diventare legge, è non può diventare materia di dibattito politico. Ho sentito dichiarazioni di deputati che fanno accapponare la pelle».
Fuori i nomi.
«Uno per tutti: Gasparri, che dice “non vincerà il partito della morte”. E quale sarebbe il partito della morte? Quello di Ignazio Marino, chirurgo di fama internazionale che in Sicilia ha realizzato una struttura che è l’invidia di mezza Europa? Il guaio è che si sta facendo una battaglia ideologica proprio dove l’ideologia non c’entra nulla».
Ha una proposta?
«Invece di discutere se sospendere o meno i sondini, parliamo dei fondi per le cure palliative, impariamo a combattere il dolore, liberalizziamo gli oppiacei come la morfina, permettiamo a tutti di vivere fino in fondo con dignità. Il guaio è che viviamo in un Paese dove, esperienza personale, un paziente non più operabile viene mandato a casa per passare gli ultimi giorni tra i propri familiari. Nel pieno di una crisi i parenti chiamano la guardia medica, chiedono della morfina per calmare il dolore e quello risponde: ma se poi muore? Cambiamo questa cultura. È molto più importante che discutere se il sondino sia o meno una cura».
Torniamo al rapporto medico-paziente, che è poi il tema del suo libro dove un medico rianimatore riesce a stabilire un contatto con un paziente costretto, dopo un’operazione malriuscita, a vivere immobile attaccato a un respiratore meccanico, prigioniero del suo corpo come un pesce rosso in una boccia di vetro.
«Il paradosso è che la relazione che si instaura tra il medico e il paziente è l’anima stessa della medicina, eppure viene lasciata al caso, al buon cuore del medico. Anziché litigare sul testamento biologico non sarebbe più utile studiare, tutti insieme, come si può migliorare questo aspetto fondamentale della pratica medica? Pensi che in tutte le università di medicina non esiste un solo corso di relazione, di comunicazione: si impara l’innervazione della mano che servirà solo ai chirurghi specializzati, e non si insegna a parlare coi pazienti dei temi più delicati. Eppure il bravo medico, anzi il vero medico è quello che riesce a entrare in sintonia col malato, a spiegargli quando un intervento è utile e quando no, quali sono i rischi, che cosa è meglio fare».
E questo non avviene già adesso?
«Mica tanto. Nel mio libro compaiono diverse figure di medico: il chirurgo senza scrupoli, il rianimatore esistenzialista ma sensibile... certo, ho estremizzato a scopo narrativo ma la realtà non è molto diversa. Ci sono medici che trovano più facile proporti un’operazione rischiosa o inutile piuttosto che affrontare insieme al paziente il tema della morte. Mi creda, è più facile operare che parlare».
Scusi, ma davvero crede che questo tipo di comunicazione, così personale e difficile, si possa imparare all’università?
«In buona parte sì, perché si basa anche su tecniche ormai note di comunicazione. Per il resto dipende dalla predisposizione personale che, dispiace dirlo, non tutti i medici hanno. E come diceva Tolstoj in «Resurrezione»: se non ami il tuo prossimo, non occupartene. Io, tanto per cominciare, cambierei il test di ingresso all’università di medicina: invece dell’esame di cultura generale farei un test attitudinale, ad esempio sei mesi di volontariato in un ospizio a lavare gli anziani. Quello sì ti fa capire se davvero vuoi aiutare gli altri».

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