«Voglio decidere io quando dire basta alla sofferenza»
Il Gazzettino del 23 luglio 2008, pag. 8
di Beatrice Mani
«Credo in Dio, nella sua misericordia, ma sono fermanente convinto del libero arbitrio e della possibilità che un ammalato possa decidere di dire basta alla sofferenza». Paolo Ravasin ha 48 anni e da quattro si sta spegnendo a causa della malattia che lo ha colpito. La sclerosi laterale amiotrofica lo blocca in un letto ma Paolo riesce ancora a parlare e a raccontare perché, come Piergiorgio Welby che soffriva della stessa patologia, ha deciso di registrare un testamento biologico.
Di fronte al suo letto c’è un teleschermo per seguire lo sport e i personaggi che ama, come Del Piero, per lui esempi di forza e coraggio. Vicino sono .appesi i disegni di sua figlia, raffigurano il mare: «Come quello di Jesolo, dove andavo con la mia famiglia e che non vedo dal 2001». Accanto al suo letto, invece, c’è la macchina che gli permette di respirare, finalmente senza interruzioni: «Prima ne avevo una che si è bloccata per 18 volte. Per 18 volte sono stato in apnea, credevo di morire - dice con un filo di voce, intervallato da rantoli e alcune pause per riposarsi -. Poi gli infermieri intervenivano e riprendevo fiato. Ma in Veneto le strutture non sono capaci di gestire questa malattia e neppure il personale è preparato. A rimetterci siamo noi degenti, costretti al patimento e all’umiliazione». È un’esistenza nella quale a sofferenze si aggiungono sofferenze, quella descritta da Ravasin che si sente snaturato dalla malattia: «Del me di 20 anni fa non c’è più niente, sono entrato in un mondo che non avrei mai immaginato, ho scoperto una realtà terribile». Tutto questo lo ha spinto, sabato scorso, a mettere nero su bianco le sue volontà, grazie al testamento biologico, registrato in video e messo su internet dall’associazione Luca Coscioni: «Sono convinto che spetti all’ammalato, soprattutto quando è cosciente, decidere della propria vita. Se potessi mi farei addormentare e staccherei questa macchina, ma questo non si può. Ora come ora accetterei anche di smettere di mangiare e bere, morirei così, aiutato solo dagli antidolorifici per alleviare il dolore». Una fine che fa paura, della quale Paolo parla senza simulare distacco: «Certo, la temo, credo sia normale e non me ne vergogno. L’ho vista in volto per 18 volte e l’ho anche auspicata». Al fratello, Ravasin ha chiesto per tre volte di spegnere il respiratore, ma lui non ha voluto.
Nonostante l’immobilità i suoi occhi scrutano i volti, faticano a nascondere le emozioni e si illuminano di fervore quando parla della sua "ultima battaglia": «Sì, questa nuova lotta mi dà la forza per andare avanti, perché non lo faccio solo per me, ma anche per tutti quei malati che non possono esprimere le proprie volontà, compiere una libera scelta. Ci sono malattie che portano ad una sofferenza inevitabile che si acuisce man mano che il male progredisce. E bisogna fermarla. Dovrebbe essere il governo a creare una legge affinché tutti possano prendere questa decisione, senza costringere i malati, uno alla volta, ad affollare i tribunali per ottenere questo diritto. Si tratta di libero arbitrio, nulla di più».
Il Gazzettino del 23 luglio 2008, pag. 8
di Beatrice Mani
«Credo in Dio, nella sua misericordia, ma sono fermanente convinto del libero arbitrio e della possibilità che un ammalato possa decidere di dire basta alla sofferenza». Paolo Ravasin ha 48 anni e da quattro si sta spegnendo a causa della malattia che lo ha colpito. La sclerosi laterale amiotrofica lo blocca in un letto ma Paolo riesce ancora a parlare e a raccontare perché, come Piergiorgio Welby che soffriva della stessa patologia, ha deciso di registrare un testamento biologico.
Di fronte al suo letto c’è un teleschermo per seguire lo sport e i personaggi che ama, come Del Piero, per lui esempi di forza e coraggio. Vicino sono .appesi i disegni di sua figlia, raffigurano il mare: «Come quello di Jesolo, dove andavo con la mia famiglia e che non vedo dal 2001». Accanto al suo letto, invece, c’è la macchina che gli permette di respirare, finalmente senza interruzioni: «Prima ne avevo una che si è bloccata per 18 volte. Per 18 volte sono stato in apnea, credevo di morire - dice con un filo di voce, intervallato da rantoli e alcune pause per riposarsi -. Poi gli infermieri intervenivano e riprendevo fiato. Ma in Veneto le strutture non sono capaci di gestire questa malattia e neppure il personale è preparato. A rimetterci siamo noi degenti, costretti al patimento e all’umiliazione». È un’esistenza nella quale a sofferenze si aggiungono sofferenze, quella descritta da Ravasin che si sente snaturato dalla malattia: «Del me di 20 anni fa non c’è più niente, sono entrato in un mondo che non avrei mai immaginato, ho scoperto una realtà terribile». Tutto questo lo ha spinto, sabato scorso, a mettere nero su bianco le sue volontà, grazie al testamento biologico, registrato in video e messo su internet dall’associazione Luca Coscioni: «Sono convinto che spetti all’ammalato, soprattutto quando è cosciente, decidere della propria vita. Se potessi mi farei addormentare e staccherei questa macchina, ma questo non si può. Ora come ora accetterei anche di smettere di mangiare e bere, morirei così, aiutato solo dagli antidolorifici per alleviare il dolore». Una fine che fa paura, della quale Paolo parla senza simulare distacco: «Certo, la temo, credo sia normale e non me ne vergogno. L’ho vista in volto per 18 volte e l’ho anche auspicata». Al fratello, Ravasin ha chiesto per tre volte di spegnere il respiratore, ma lui non ha voluto.
Nonostante l’immobilità i suoi occhi scrutano i volti, faticano a nascondere le emozioni e si illuminano di fervore quando parla della sua "ultima battaglia": «Sì, questa nuova lotta mi dà la forza per andare avanti, perché non lo faccio solo per me, ma anche per tutti quei malati che non possono esprimere le proprie volontà, compiere una libera scelta. Ci sono malattie che portano ad una sofferenza inevitabile che si acuisce man mano che il male progredisce. E bisogna fermarla. Dovrebbe essere il governo a creare una legge affinché tutti possano prendere questa decisione, senza costringere i malati, uno alla volta, ad affollare i tribunali per ottenere questo diritto. Si tratta di libero arbitrio, nulla di più».
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