mercoledì 23 luglio 2008

Il diritto di morire nel nostro Medioevo

Il diritto di morire nel nostro Medioevo

La Repubblica del 21 luglio 2008, pag. 1

di Adriano Prosperi

Una antica rissa cristiana sembra essersi riaccesa in Italia intorno al più cupo dei diritti, quello di morire: suore uscite per un attimo dall’ombra di una vita di carità, prelati e dotti teologi offrono gli argomenti della religione a un movimento assai composito di gente comune e di affannati politicanti. Ed è un dolce nome di donna quello a cui tocca ancora una volta il compito di portare il simbolo dell’offesa e della violenza patita. Ma la schiuma della cronaca talvolta nasconde piuttosto che rivelare le correnti profonde. Per questo non faremo quel nome. Per una volta almeno non sarà pronunziato il nome di donna a cui tocca oggi - in attesa di altri candidati che non mancheranno - il compito di rappresentare nella piazza mediatica il dramma della nostra impotenza davanti alle crudeltà della natura e di offrire il suo volto indifeso alle bandiere di un "partito" contro un altro - un sedicente partito della vita in lotta contro un improbabile partito della morte. Tacerlo è la sola cosa che resta da fare, non solo per pudore e per pietà, ma anche perché tutto il necessario è stato detto e tutte le risorse e i saperi delle istituzioni sono stati messi a frutto.



Qui si tratta piuttosto di capire la sostanza dei problemi che agitano la società e che muovono ciascuno di noi a partecipare intensamente, coi sentimenti e con le idee, alla tempesta che ogni volta si scatena intorno a questi casi. Ogni volta questa speciale forma di morte chiama in gioco la medicina e il diritto, la religione e la politica. È la moderna danza macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l’antico dalla paura di un nemico terribile: che non è più la morte improvvisa e senza sacramenti della peste, ma è la minaccia congiunta di una vita che non è vita e di una morte debole, inavvertita e sfuggente. Le ragioni del diritto le ha esposte ieri con la solita inappuntabile precisione Stefano Rodotà. Ma è la medicina che viene prima di tutto. A lei, in una celebre intervista del 1957, un lungimirante Pio XII lasciò il compito e la responsabilità di individuare il segno del confine tra la vita e la morte. E ben prima di allora i medici hanno cercato di fare propria l’antica certezza di Re Lear: «Io so ben riconoscere quando uno è morto e quando vive». Ci sono riusciti? non sembra. Oggi negli Stati Uniti d’America può accadere che una persona - la stessa persona - sia ritenuta legalmente morta in California e ancora in vita nel Missouri. Il caso (reale) è raccontato dal professor Carlo Alberto Defanti, nella prima pagina di un libro che sembra scritto apposta per guidare con l’aiuto della scienza medicai lettori dei nostri tempi, in sosta angosciati davanti al passaggio estremo: Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.270).



Quali le soglie su cui si è attestato nel nostro provvisorio presente il limite estremo della vita umana? sono ancora quelle antiche, in contrasto da secoli: il battito del cuore, la scintilla del cervello. La medicina si è impadronita della questione quando, col ritorno alla pratica anatomica alla fine del Medioevo, la foresta degli organi è cominciata ad emergere dietro l’unità della pianta umana. E fin da allora la pratica medica concepì quella fame di corpi che non doveva più lasciarla: la "fabbrica del corpo umano" (il titolo fu di Andrea Vesalio) doveva essere chiamata nel ‘900 - dopo la celebre operazione di Christian Barnard - a fornire tanti pezzi di ricambio. Questo non è un dettaglio ma un punto nodale dei problemi attuali. L’offerta di corpi umani, possibilmente ancora palpitanti di una vita residua, ha alimentato i progressi della medicina.



Ma per ottenerli è stata necessaria una alleanza coi poteri della religione e dello Stato: fin dagli inizi. Come si racconta in un libro collettivo, uscito contemporaneamente a quello di Defanti (Misericordie, Confessioni sotto il patibolo, Edizioni della Normale 2007) si ricorse per secoli alle forniture dei patiboli e alle membra più "vili", quelle dei condannati a morte. E ci volle uno speciale investimento di pratiche e di rituali per saldare il necessario circuito tra potere e religione, tra erogazione della morte e promessa di vita - quella dell’aldilà ai condannati e quella di questo mondo agli ammirati spettatori delle meravigliose operazioni della scienza medica. Da allora in poi quel circuito doveva ripresentarsi costantemente, sia pure sotto altre forme.



Le tappe successive della storia scientifica della questione ci portano ancora alla diarchia cuore-cervello. Il "miracolo" della rianimazione (dall’inglese "resuscitation") apri la strada alle moderne cure intensive con le tecniche per far ripartire un cuore arrestato e ventilare chi non era in grado di respirare autonomamente (il polmone d’acciaio è del 1927). Ma quando si scoprì nel 1959 che in determinati stati di coma l’elettroencefalogramma non rilevava più onde elettriche cerebrali, si pose il problema se valesse la pena proseguire l’assistenza ventilatoria. Dalla scoperta del coma irreversibile derivò la proposta del comitato della Harvard Medical School di considerare questo stato come "sindrome della morte cerebrale" e di fissarlo come nuovo criterio di morte. La data del documento (1968) segna una svolta storica importante, come mostra Defanti che ne analizza il contesto e le ragioni, scientifiche ed economiche, e segnala la cautela con cui fu cercato l’avallo delle autorità religiose. È su questa base che fu definitala procedura per ottenere organi utilizzabili per trapianti, pezzi per l’officina delle riparazioni chirurgiche. Ma, come sanno o dovrebbero sapere tutti coloro che hanno nel portafoglio l’autorizzazione all’espianto dei propri organi, quel criterio fu scelto per ragioni pratiche da chi sapeva quanto fosse difficile fissare l’attimo decisivo su di un orologio della morte che è capace di misurare solo un processo graduale e differenziato. Così anche il documento di Harvard non segnò la fine della questione. Da un lato la diffusione clamorosa con Barnard del trapianto di cuore spinse potentemente in direzione dell’eutanasia attiva e dell’espianto di cuori funzionanti; dall’altro l’esplorazione del cervello ha dissolto l’unità di questo organo in entità diverse, ognuna con una vita e una morte propria.



Se lasciamo l’ancoraggio delle ricerche mediche, ci si apre davanti l’universo dei sentimenti: specialmente di quella paura della morte di sé che in ciascuno si scatena davanti alla morte degli altri. E qui la realtà del nostro tempo rivelala sua irrecuperabile lontananza dall’antica religione che oggi lotta con tutte le sue forze contro i suoi nemici di sempre. Eutanasia, questa è la parola: parola ambigua, odiata e ripudiata quando si presenta con l’orrendo volto nazista della soppressione forzata di un’umanità difettiva, ma che cela nel suo benevolo suono la voce di una sirena antica: il desiderio e l’augurio - per sé e per i propri cari di una morte rapida e totale, senza sofferenze; ma anche la convinzione ormai acquisita che disporre della sorte del proprio corpo rientra fra i diritti dell’individuo. Qui si incontrano i bisogni profondi del nostro tempo. E si capisce perché ci colpisce tanto la storia di quella dolce figura femminile, che appare oggi ancora viva almeno nella cronaca lacerata del paese: è la nostra storia, una possibile, sempre più probabile storia della fine che aspetta ciascuno di noi. Qui si misura l’arretramento drammatico del senso cristiano della morte, di quella morte gioiosa del credente che dettò aMartin Lutero uno dei suoi scritti più belli e che doveva animare la fede dei martiri della Riforma mentre salivano lietamente sui patiboli dell’Inquisizione. Oggi solo la deliberata ambiguità della scelta di una parola, la vita - termine che i credenti possono intendere nel senso di vita dell’aldilà e tutti gli altri sono liberi di applicare alla vita che abbiamo qui - sostiene le incongrue alleanze costruite per battere le leggi sull’aborto e le proposte di testamento biologico.



Il filo che ci porta al presente cominciò quando nella cultura europea del ‘700 razionalista prese corpo il rischio della morte apparente. Come ha raccontato anni fa Claudio Milanesi furono allora elaborate norme precise tuttora valide per scongiurare il pericolo della sepoltura di persone in stato di catalessi; e tutti conoscono in che modo la fantasia romantica di Edgar Allan Poe desse poi corpo a quei fantasmi dei morti viventi che abitano oggi negli incubi del nostro presente e ci vengono incontro nelle corsie delle cliniche.



Dunque, una conclusione si impone. La storia ci ha condotti a questo punto, per molte e complicate vie che fanno parte incancellabile della realtà di un paese moderno. Pertanto non ci sono alternative alla messa in opera delle regole faticosamente elaborate per conciliare il diritto individuale a disporre del proprio corpo con l’obbligo istituzionale a fornire tutte le cure necessarie alla persona malata: obbligo che non si deve tuttavia spingere alla "tortura inutile" di cui scriveva Paolo VI nella lettera del 1970 citata da Rodotà. E se le attuali gerarchie cattoliche farebbero bene a meditare quelle parole, spetta invece allo Stato italiano affrontare sia il gravissimo problema delle carenze delle strutture sanitarie che oggi obbligano le famiglie a sostenere il peso anche morale di situazioni dolorosissime, sia introdurre finalmente una regolamentazione adeguata del testamento biologico. Nell’immediato, spetta a noi tutti fare un passo indietro, recedere dal clamore indecente che oggi assedia chi ha diritto al rispetto e al silenzio.

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