mercoledì 23 luglio 2008

Terry Schiavo, Welby, Eluana La morte che non finisce mai

Terry Schiavo, Welby, Eluana La morte che non finisce mai

Liberazione del 22 luglio 2008, pag. 10

di Mariella Immacolato
Oggi i riflettori sono puntati su Eluana Eglaro, 3 anni fa tutto il mondo parlava di un altro tragico caso, Terry Schiavo. In entrambe le vicende, i medici si sono pronunciati sulla irreversibilità dello stato vegetativo delle due donne, dato il lungo tempo trascorso. Infatti è proprio il tempo che passa che decreta la permanenza ovvero la irreversibilità di tale stato. Per tutte e due, la lunga battaglia condotta dai loro tutori, il padre nel caso di Eluana, il marito per Terry, è stata per fare sì che la loro volontà di non essere mantenute in vita in quello stato, fosse rispettata.
La richiesta di sospensione della nutrizione e della idratazione artificiale da parte dei tutori ha il significato di rendere compiuta le volontà di Terry ed Eluana che, se avessero potuto, avrebbero rifiutato di continuare qualsiasi terapia. In Italia, le vicende Welby ed Englaro hanno permesso a tutti gli utenti, anche a quelli divenuti incapaci, di esercitare il diritto all'autodeterminazione e di realizzare a pieno il consenso/rifiuto informato. Tale diritto è finalmente diventato irrinunciabile in ogni percorso sanitario, con l'unica eccezione dello stato di necessità, che consente ai medici di intervenire, quando non ci sono volontà manifestate in precedenza, senza consenso del paziente.
Questi due casi italiani hanno fatto chiarezza: i medici ora non possono più prescindere, nel costruire la relazione terapeutica, dalla tutela del diritto all'informazione e al consenso delle persone/utenti per realizzare, così, la partecipazione dei pazienti alle scelte che riguardano la loro salute. Rispettare la dignità delle persone, valore contenuto nella Costituzione e nel diritto positivo, in sanità e non solo, significa in concreto tutelare il diritto all'autodeterminazione delle persone. Nella sentenza dei giudici della Corte di Appello di Milano, che autorizza la richiesta di Beppino Englaro di sospendere l'alimentazione e idratazione artificiale affinché Eluana possa morire in pace, vi è la netta affermazione dell'inviolabilità della sfera personale da parte di chicchessia, compreso lo Stato.
Sono state scritte e dette tante cose sui casi Schiavo ed Englaro, ma tra le tante colpisce la confusione di pochi concetti e termini, che sono abbastanza codificati, e la strumentalizzazione che di questa confusione si fa. Nel trattare temi così drammatici il linguaggio deve essere rigoroso e servire come uno strumento per rappresentare la realtà complessa delle cose. In alcune occasioni le condizioni di Terry e di Eluana sono state assimilate a quelle dei disabili psichici e dei portatori di handicap, facendo inorridire al pensiero di sospendere forzatamente il nutrimento a tale categoria di soggetti. Niente è più ingannevole di un simile accostamento. Disabile significa "diversamente abile", locuzione che definisce meglio tale stato. Per portatore di handicap, secondo la legge (art. 3 legge 104/'92), si intende «colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa tale da determinare un processo di svantaggio sociale e di emarginazione». Da queste definizioni, valide a livello internazionale, risulta che i soggetti interessati conservano, se pur in misura diversa, un certo grado di "abilità", che consente loro di interagire in qualche modo con l'ambiente sociale, in cui la legge prevede appunto siano integrati. Nello stato vegetativo permanente (Svp) sono perse tutte le abilità e nessuna interazione e integrazione con l'ambiente è più possibile, perciò è scorretto e ingannevole definire un malato in queste condizioni disabile o portatore di handicap.
E' ingannevole lasciare intendere che la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale, nel caso di Eluana, sia eutanasia e non sospensione di terapia.
La sospensione di un trattamento di sostegno vitale diventa atto eutanasico nel caso che non sia espressa la volontà del paziente che lo riceve e il trattamento sia appropriato e non futile. Questo vuole dire che quella terapia incide positivamente sulla quantità della vita come parametro non fine a se stesso, sulla qualità della vita, e che la persona trae da tali interventi tecnici di sostegno vitale un beneficio complessivo. In questo caso l'interruzione, nel caso non risultasse il rifiuto del paziente, potrebbe configurare un atto eutanasico, in quanto la motivazione della sospensione ricadrebbe nell'ambito del giudizio sul valore di quella vita, ovvero sarebbe basata sulla valutazione di terzi che la vita di quel paziente, globalmente intesa, non sia più degna di essere vissuta. Se invece il trattamento, qualunque esso sia, non incide né sulla patologia di base, né sulla qualità della vita, ma ha solo il significato di mero prolungamento della vita biologica, allora il sospenderlo ha il significato di una legittima e doverosa interruzione di un trattamento non appropriato in quanto futile. Continuarlo potrebbe assumere il significato di accanimento terapeutico.
In ultima analisi, le chances di successo e l'appropriatezza, intesa in termini di efficacia, sono componenti importanti e ineludibili del giudizio di proporzionalità di una cura. La nutrizione e idratazione artificiale e tutti gli altri trattamenti di sostegno vitale hanno come obiettivo di sostenere il prolungamento cronologico della vita non in quanto tale, quindi fine a se stesso, ma finalizzato alla guarigione o a un miglioramento della patologia di base o a un recupero, piccolo o grande che sia, della qualità di vita, ovvero, in ultima analisi, al mantenimento di una vita, anche minima, biografica. Se non vi è alcuna chanche di raggiungere uno di questi obiettivi, viene a mancare il presupposto che rende questi mezzi appropriati e quindi il dovere di attuarli e l'obbligo di continuarli. Anzi, il mantenerli contro la volontà di chi li subisce, configura accanimento terapeutico. Nel caso poi dello stato vegetativo permanente, cioè di Eluana Englaro, la nutrizione e l'idratazione artificiale non hanno il fine di conservare la vita, ma quello di prolungare il "processo del morire", che le tecniche e i trattamenti rianimatori, tra i quali vanno comprese nutrizione e idratazione artificiale, hanno sospeso e forzatamente prolungato all'infinito.
Il progresso scientifico nel campo della rianimazione e della tecnologia ad essa applicata ha portato alla possibilità di intervenire nel "processo del morire", arrestandolo, in alcuni casi, con il ritorno alla vita, prolugandolo, purtroppo anche indefinitamente, in altri, ma mai invertendolo verso la vita, quando ha superato una certa soglia, come nel caso dello stato vegetativo permanente.
E' del tutto inopportuno scandalizzarsi e inorridire per il fatto che la vicenda umana di Eluana si concluda grazie alla sentenza della Corte di Appello di Milano. Tale vicenda è diventata giudiziaria nel momento in cui il padre Beppino ha visto violato il diritto all'autodeterminazione della figlia, che aveva espresso prima del fatale incidente il rifiuto delle cure che la mantengono oggi in stato vegetativo permanente, ed è ricorso ai giudici affinché tale diritto venisse ripristinato. Sono proprio i giudici che devono essere chiamati in causa quando ci sono controversie da dirimere in materia di tutela dei diritti umani previsti dall'ordinamento giuridico. Così succede in tutti i paesi civili dove, alla base della Costituzione, ci sono i diritti civili. In questi paesi, quando qualcuno ritiene che la loro tutela venga meno, si rivolge al giudice per avere giustizia. Così ha fatto per ben 9 volte Beppino Englaro. Così fu per i famosi casi americani di Karen Ann Quilan del 1975 e di Nancy Cruzan del 1983. Così, nel 1986, nel Massachusets, i giudici imposero ai medici di sospendere la nutrizione e idratazione artificiale a Paul Brophy, che aveva espresso un rifiuto anticipato. E sempre per questo motivo, nel 1987, nel New Jersey, fu la Corte, per la prima volta, ad autorizzare la sospensione anche in assenza di un rifiuto anticipato, riconoscendo al medico la responsabilità di decidere ricostruendo, caso per caso, il migliore interesse del singolo paziente. Nel 1991 furono i giudici a decidere, nel caso di Helga Wanglie, che vedeva medici e famigliari schierati su posizioni contrapposte, di autorizzare la decisione dei medici di sospendere le misure di sostegno vitale. Sono alcuni esempi di vicende in parte simili a quella di Eluana. La sospensione della nutrizione e idratazione nei casi di stato vegetativo permanente non è praticare l'eutanasia, ma consentire che il processo di morte, interrotto dai medici, possa riprendere e concludersi. E' un atto rispettoso sia di chi crede in Dio e ritiene il processo vitale legato alla sua volontà, sia dei laici per cui vale il principio irrinunciabile del rispetto della dignità umana. E' un atto che vale per l'umanità intera. Per chi crede nel sentimento della pìetas e della compassione verso il prossimo.

NOTE

Medico legale, Consulta di Bioetica

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