mercoledì 23 luglio 2008

Caso Englaro, ovvero la fatica di morire

Caso Englaro, ovvero la fatica di morire

Avanti! del 15 luglio 2008, pag. 1

di Venerio Cattani

In Italia è una fatica non solo vivere, ma anche morire. E basti ad esempio la tragica storia della povera Eluana, la ragazza in coma vegetativo da sedici anni, alla quale finalmente è capitato un magistrato di buonsenso, che ha sentenziato di lasciarla morire, ma non basta.



Non basta l’invocazione ripetuta e pressante del padre, brava e coraggiosa persona, che da anni chiede che, vista la manifesta impossibilità di ripresa, vista la volontà manifestata a suo tempo dalla ragazza (che aveva assistito al calvario di un amico in coma nelle medesime condizioni), visto l’inutile trascorrere degli anni, si lasci alla figlia la possibilità di lentamente naufragare nel nulla. Non basta il consenso del suo medico curante, che assiste Eluana da sedici anni e si dichiara disposto a praticare con scienza e coscienza il triste distacco. In Italia occorre ben altro. La Chiesa grida all’omicidio; all’ospedale si oppongono i medici obbiettori di coscienza; le brave suore che la curano e la tengono in vita (chiamiamola vita), decidono con beata incoscienza: "È ancora così bella, lasciatela a noi". E c’è Giuliano Ferrara, al quale da qualche tempo ha evidentemente dato di volta il cervello (non gli è bastata la disavventura elettorale sull’aborto), che accorre con le bottiglie di acqua minerale per dissetare la poveretta. Col che, come sempre da noi, anche la più penosa delle tragedie assume risvolti di comicità.



Così dopo le vicende Welby, Coscioni, Nuvoli e orinai sempre più numerose altre, si aggiunge una storia di vita e di morte. Il direttore de "Il Riformista", Antonio Polito, suggerisce ai legislatori di lasciar perdere: i viventi non sono in grado di giudicare come si debba o non si debba morire. La tesi è suggestiva, ma non ci soddisfa. La prospettiva di vivere infinitamente, anni e anni, una vita puramente vegetativa, meccanica, condizionata dal funzionamento di una macchina, è terrificante. E tanto più se dentro un corpo immobilizzato fosse rimasto un barlume di vita, di sensibilità. Penso a me stesso, se colpito da ragazzo, avessi dovuto invecchiare anno dopo anno senza alcuna reazione, magari costretto ad ascoltare senza poter rispondere. Quale peggior tortura si potrebbe immaginare, peggiore di qualunque morte? E anche ammesso di poter tornare "alla luce", a muovere gli occhi o una mano, dopo dieci, sedici, vent’anni, che senso avrebbe riprendere una vita del genere, a qual fine? Sarebbe assai peggio che uscire da un ergastolo, nel quale dopo tutto hai potuto leggere un giornale, ascoltare una radio, vedere una televisione, scambiare due chiacchiere col carceriere. Questo sarebbe un ritorno, sia pur doloroso e difficile, alla vita; l’altro sarebbe una resurrezione dalla tomba, e non dopo tre giorni, come il Galileo, ma dopo trent’anni. Perciò, non possiamo accettare il suggerimento di Polito, di non farne nulla. Anzi, accelerare la legge, non sulla eutanasia, ma sul testamento biologico. Un testamento biologico a cui i medici siano tenuti ad attenersi nella misura del possibile: una manifestazione di volontà, chiaramente espressa, con la quale chi voglia sopravvivere fino all’estremo e anche oltre possa farlo, e chi voglia spicciarsela decorosamente e silenziosamente sia pure assistito a farlo. Che ognuno si scruti dentro e dica se è disposto a fare la fine di Eluana e anche quella del suo povero padre.

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