La Costituzione ha salvato Eluana
Liberazione del 11 luglio 2008, pag. 1
di Maria Luisa Boccia
La sentenza Englaro non è la prima che legittima la scelta di metter fine a terapie e macchine che tengono in vita. In Italia vi sono state quelle per Vincenza Santoro Galani, che ha chiesto ed ottenuto dal giudice di rifiutare terapie che non le avrebbero evitato la morte. Quella che ha legittimato "a posteriori" l'intervento dell'anestesista Riccio per Piergiorgio Welby. E quella che ha prosciolto Carlo Sini il medico curante di Giovanni Nuvoli, che come Welby non voleva più vivere attaccato al respiratore e al sondino. Ma la sentenza dei giudici di Milano è forse la più importante. Almeno dal punto di vista del diritto.
E' nota la lunga e tormentata vicenda giudiziaria. Sedici anni e numerose sentenze che respingono la richiesta del padre di Eluana Englaro di rispettare la sua volontà di non essere tenuta in vita con le macchine. Poi la svolta, con la sentenza della Cassazione nell'ottobre '07 che rinvia al giudice di merito, con precise motivazioni. Una è quella decisiva. Afferma la Corte che «la dignità della persona» va rispettata, quale che sia il modo di intenderla e di viverla della singola donna o del singolo uomo. Per alcuni/e questa dignità è legata ad un vissuto di esperienze e coscienza, per altri/e degna è la vita biologica in se stessa. Quello che conta, per la Corte, è acquisire «elementi chiari, concordanti, convincenti» che diano voce alla persona. E' questo che il tribunale di Milano era chiamato a fare. Ha accertato qual era la dignità della vita per Eluana e ha autorizzato a sospendere ogni trattamento.
Non si apprezza a pieno l'importanza di questa decisione se non si considerano insieme le due sentenze, quella di legittimità e quella di merito. Non solo perché senza la prima non vi sarebbe stato modo di procedere sul piano giudiziario. Almeno in Italia. Ma perché è la Corte che ha fornito i riferimenti giuridici, grazie ai quali il giudizio di merito è stato favorevole alla scelta di Englaro.
La decisione della Corte va oltre il caso specifico. Secondo la massima autorità il nostro sistema di norme riconosce già l'autodeterminazione soggettiva in questa materia.
Per renderla effettiva, e dunque per autorizzare chi ha in cura ad operare in tal senso, è sufficiente accertarla. Non solo. Questo è possibile farlo, anche nelle situazioni più delicate e controverse, come è quella del coma vegetativo.
Per ultimo. Le norme sulle quali poggiano la sentenza della Corte, e poi quella di Milano, sono di rango costituzionale, quindi non possono essere disattese o violate da leggi ordinarie.
Cosa dire, allora, dei due anni di discussione in Parlamento, finiti nel nulla, sul testamento biologico?
Colpisce, soprattutto, la strumentalità del conflitto sui valori. Che piega, strumentalizza appunto, la legge ad una concezione etica. A partire dal valore della vita, indisponibile anche - soprattutto? - per chi la incarna. A seguire su cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico. Su cosa rientra nel diritto soggettivo e cosa nella responsabilità del medico. Etc, etc… E' strumentale, perché ignora le vicende concrete, umane, attorno alle quali pure si accende la contesa. E perché ignora i principi e le norme che vi sono e che potrebbero e dovrebbero orientare l'opera del legislatore.
Si è discusso infatti come se fossimo in un vuoto legislativo. Come se le frontiere inedite delle tecnologie e della medicina, ci trovassero del tutto sguarniti. Privi di ogni riferimento, di ogni principio. Invece non è così. Il principio dell'autodeterminazione comprende anche la scelta di non essere sottoposto/a a trattamenti sanitari che non si vogliono. E' garantito dalla Costituzione. E può dare risposta anche a problemi e situazioni fino a ieri impensabili. Basta saper leggere la Carta con gli occhi del presente. E non ossificarla nel passato, per svuotarla.
Ha ragione Umberto Veronesi: della legge si può anche fare a meno. Basta compilare una dichiarazione sulle cure che si vogliono o no ricevere, in caso di perdita della capacità di intendere e volere.
La sentenza di Milano dimostra che si può giudicare nel merito, perfino in assenza di questa carta. Ma se non si vogliono impiegare decenni, carichi di sofferenze, di energie e di risorse, la legge può servire. Se non altro come stimolo ad ognuno/a a mettere nero su bianco qual è la sua scelta. E però, visto il Parlamento che abbiamo, ci dà forza sapere che vi è già modo di far valere una scelta come quella di Eluana Englaro.
«Mia figlia è libera». In queste parole di Beppino Englaro è racchiuso il senso di quello che nei tanti discorsi sulla bioetica si tende a coprire. Libera di morire come avrebbe chiesto, se avesse potuto farlo. Sì, ma non solo questo. Libera, senza aggiunte, specificazioni, contenuti che definiscono e limitano. Libera di essere e pensare da sé. Senza dover ritagliare il senso e l'esperienza della libertà, secondo una concezione imposta dall'alto e dall'esterno della vita e della dignità umana.
Liberazione del 11 luglio 2008, pag. 1
di Maria Luisa Boccia
La sentenza Englaro non è la prima che legittima la scelta di metter fine a terapie e macchine che tengono in vita. In Italia vi sono state quelle per Vincenza Santoro Galani, che ha chiesto ed ottenuto dal giudice di rifiutare terapie che non le avrebbero evitato la morte. Quella che ha legittimato "a posteriori" l'intervento dell'anestesista Riccio per Piergiorgio Welby. E quella che ha prosciolto Carlo Sini il medico curante di Giovanni Nuvoli, che come Welby non voleva più vivere attaccato al respiratore e al sondino. Ma la sentenza dei giudici di Milano è forse la più importante. Almeno dal punto di vista del diritto.
E' nota la lunga e tormentata vicenda giudiziaria. Sedici anni e numerose sentenze che respingono la richiesta del padre di Eluana Englaro di rispettare la sua volontà di non essere tenuta in vita con le macchine. Poi la svolta, con la sentenza della Cassazione nell'ottobre '07 che rinvia al giudice di merito, con precise motivazioni. Una è quella decisiva. Afferma la Corte che «la dignità della persona» va rispettata, quale che sia il modo di intenderla e di viverla della singola donna o del singolo uomo. Per alcuni/e questa dignità è legata ad un vissuto di esperienze e coscienza, per altri/e degna è la vita biologica in se stessa. Quello che conta, per la Corte, è acquisire «elementi chiari, concordanti, convincenti» che diano voce alla persona. E' questo che il tribunale di Milano era chiamato a fare. Ha accertato qual era la dignità della vita per Eluana e ha autorizzato a sospendere ogni trattamento.
Non si apprezza a pieno l'importanza di questa decisione se non si considerano insieme le due sentenze, quella di legittimità e quella di merito. Non solo perché senza la prima non vi sarebbe stato modo di procedere sul piano giudiziario. Almeno in Italia. Ma perché è la Corte che ha fornito i riferimenti giuridici, grazie ai quali il giudizio di merito è stato favorevole alla scelta di Englaro.
La decisione della Corte va oltre il caso specifico. Secondo la massima autorità il nostro sistema di norme riconosce già l'autodeterminazione soggettiva in questa materia.
Per renderla effettiva, e dunque per autorizzare chi ha in cura ad operare in tal senso, è sufficiente accertarla. Non solo. Questo è possibile farlo, anche nelle situazioni più delicate e controverse, come è quella del coma vegetativo.
Per ultimo. Le norme sulle quali poggiano la sentenza della Corte, e poi quella di Milano, sono di rango costituzionale, quindi non possono essere disattese o violate da leggi ordinarie.
Cosa dire, allora, dei due anni di discussione in Parlamento, finiti nel nulla, sul testamento biologico?
Colpisce, soprattutto, la strumentalità del conflitto sui valori. Che piega, strumentalizza appunto, la legge ad una concezione etica. A partire dal valore della vita, indisponibile anche - soprattutto? - per chi la incarna. A seguire su cosa è eutanasia e cosa accanimento terapeutico. Su cosa rientra nel diritto soggettivo e cosa nella responsabilità del medico. Etc, etc… E' strumentale, perché ignora le vicende concrete, umane, attorno alle quali pure si accende la contesa. E perché ignora i principi e le norme che vi sono e che potrebbero e dovrebbero orientare l'opera del legislatore.
Si è discusso infatti come se fossimo in un vuoto legislativo. Come se le frontiere inedite delle tecnologie e della medicina, ci trovassero del tutto sguarniti. Privi di ogni riferimento, di ogni principio. Invece non è così. Il principio dell'autodeterminazione comprende anche la scelta di non essere sottoposto/a a trattamenti sanitari che non si vogliono. E' garantito dalla Costituzione. E può dare risposta anche a problemi e situazioni fino a ieri impensabili. Basta saper leggere la Carta con gli occhi del presente. E non ossificarla nel passato, per svuotarla.
Ha ragione Umberto Veronesi: della legge si può anche fare a meno. Basta compilare una dichiarazione sulle cure che si vogliono o no ricevere, in caso di perdita della capacità di intendere e volere.
La sentenza di Milano dimostra che si può giudicare nel merito, perfino in assenza di questa carta. Ma se non si vogliono impiegare decenni, carichi di sofferenze, di energie e di risorse, la legge può servire. Se non altro come stimolo ad ognuno/a a mettere nero su bianco qual è la sua scelta. E però, visto il Parlamento che abbiamo, ci dà forza sapere che vi è già modo di far valere una scelta come quella di Eluana Englaro.
«Mia figlia è libera». In queste parole di Beppino Englaro è racchiuso il senso di quello che nei tanti discorsi sulla bioetica si tende a coprire. Libera di morire come avrebbe chiesto, se avesse potuto farlo. Sì, ma non solo questo. Libera, senza aggiunte, specificazioni, contenuti che definiscono e limitano. Libera di essere e pensare da sé. Senza dover ritagliare il senso e l'esperienza della libertà, secondo una concezione imposta dall'alto e dall'esterno della vita e della dignità umana.
Nessun commento:
Posta un commento