venerdì 14 novembre 2008

Vivere e morire con dignità

Vivere e morire con dignità

Il Manifesto del 14 novembre 2008, pag. 1

di Eligio Resta

Ha ragione Beppino Englaro nell’affermare che c’è lo «stato di diritto». C’è perché i giudici della Suprema Corte hanno applicato regole e principi che le leggi prescrivono: le leggi e non le parole d’ordine che certa opinione pubblica e certe ideologie hanno suggerito in maniera corposa.



Englaro non avrebbe potuto parlare di «stato di diritto» se fosse passata la linea della maggioranza che aveva sollevato il conflitto di attribuzioni contro un atto «dovuto» della giurisdizione. Se fosse stata vincente quella ipotesi ci saremmo infatti trovati di fronte alla lesione dei principio fondamentale dello «stato di diritto» per cui il giudice non può negare giustizia. Si chiama divieto del non liquet quello imposto al giudice ed è garanzia che ai diritti invocati dai cittadini a rispondere debba essere lui, e non altri, ad esempio il sovrano, l’amministrazione, i centri di potere.



La Corte Costituzionale, investita della questione, ha decisamente respinto il conflitto che la maggioranza aveva sollevato e ne ha rilevato l’infondatezza, proprio in nome dello stato di diritto. Nella tradizione anglosassone la formula usata è quella della rule of law, che non significa altro se non il «governo della legge»: il suo contrario è, non a caso, il «governo degli uomini», con i loro poteri, spesso con le loro prepotenze, le loro passioni, le loro preferenze ideologiche. Si invocava dalla maggioranza l’assenza della «legge» da rivendicare alla competenza del Parlamento, senza tener conto che delle leggi fanno parte la Costituzione e i suoi principi: si chiama, non per caso, legge fondamentale. È stata lunga e faticosa la lotta per il diritto che i familiari di Eluana hanno dovuto intraprendere. Si sono trovati di fronte a una serie di ostacoli formali e informali che definirei come una generale assenza di carità. Quella carità avrebbe potuto guardare con tutto il rispetto e tutta la com-passione alla tragedia di Eluana e dei suoi. Non è andata così e ha prevalso un accanimento ideologico, troppo sordo alla «dignità» di questa persona nella sua esistenza tragicamente concreta.



Nel ribadire l’inammissibilità del ricorso della Procura Generale di Milano, la Suprema Corte ha dunque confermato la precedente decisione. Ed è nel merito che è bene ancora discutere. I giudici hanno applicato la legge che prescrive che ogni trattamento sanitario deve perseguire la dignità: il punto è proprio qui. La dignità è il diritto a riconoscersi come uomo e donna capaci di auto-determinazione e di liberi di sottrarsi a sofferenze ulteriori. Il diritto fondamentale della tradizione moderna è appunto quello «a sottrarsi alle proprie catene»: l’assenza di «sacralità» sta invece proprio nella volontà di perpetuare una vita soltanto artificiale. Paradossalmente è il contrario della natura: è contro natura, e, se vogliamo, a essere contro natura è proprio l’assenza di carità e di com-passione.



Non si tratta di una decisione con la quale i giudici legittimano l’eutanasia: consentire a una richiesta così dolorosa delle persone che più amano Eluana significa riconoscere il diritto alla propria vita, non a quella imposta dalla tecnica e dalle ideologie. Proprio quella tecnica che viene rifiutata quando è in gioco la possibilità di alleviare sofferenze, viene invocata invece per perpetuarle. Non ci sarebbe neanche bisogno di una legge sul testamento biologico, dal momento che autodeterminazione, dignità e divieto di discriminazione sono principi fondamentali del nostro ordinamento. Senza poi dimenticare che nessun «sovrano» può imporre di vivere né di lasciar morire. L’unica possibile sovranità è quella di ognuno su se stesso; a ricordarcelo è la vecchia filosofia liberale, non il gauchiste di turno: la vera natura morale degli individui si può infatti esplicare soltanto quando siano tolti i pesi che leggi e poteri sulla vita impongono.

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