venerdì 21 novembre 2008

Caso Eluana, l'eutanasia del linguaggio

Caso Eluana, l'eutanasia del linguaggio

Liberazione del 21 novembre 2008, pag. 1

di Maurizio Mori
A scorrere la rassegna stampa sul caso Eluana ci sono molti punti che colpiscono, ma due di essi meritano una pausa di riflessione.
Il primo riguarda l'uso del linguaggio. Ormai tutti si lamentano che le parole sono usate nel significato sbagliato. Per risolvere la stortura, la sottosegretaria Roccella ha fatto scrivere un vero e proprio "Glossario" in cui si definiscono i termini chiave circa lo stato vegetativo permanente, nella speranza di poter controllare almeno le parole - visto che il resto è già sfuggito di mano. L'obiettivo è quello di sempre: dando il nome alle cose si vuole dare una rassicurazione ai cittadini turbati dicendo loro che non devono preoccuparsi di niente, che tutto è come prima, e che presto si riporteranno indietro le lancette della storia. L'impegno sembra illusorio, perché è difficile riuscire ad impadronirsi del linguaggio: ci hanno provato in tanti, e non sembra basti l'aiuto di qualche medico devoto e compiacente, unito a una campagna mediatica. Ma ciascuno ha le proprie illusioni ed è bene che se le coltivi come può. Ci sarà modo di esaminare anche questo aspetto.
Un altro termine al centro dell'attenzione è "eutanasia", visto che da più parti si ripete che Eluana morirà per "eutanasia" o per iniqua "condanna a morte". È chiaro che l'uso di queste parole è teso a sottolineare un'incongruenza, dal momento che in Italia l'eutanasia è vietata come lo è la pena di morte. Ancora di più: il termine "eutanasia" è ancora associato all'orrendo "Euthanasie Programme" di Hitler, che nulla ha a che fare con quanto si indica oggi con quella parole.
La pena di morte ci fa tornare alla mente le esecuzioni (impiccagioni ecc.) in tempi o paesi meno "civili". Insomma, si usano questi termini non per descrivere la situazione o dare un'informazione, bensì per suscitare emozioni di sdegno ed incitare all'attacco. Non per ragionare e far ragionare, ma per evocare le passioni più intense.
Per chi vuole mettersi a ragionare (e non è indispensabile visto che alcuni irrazionalisti hanno esplicitamente dichiarato di non voler ragionare né discutere, ma solo protestare), il punto di partenza è considerare le definizioni tecniche, sulle quali c'è stata un'attenta riflessione. In questo senso l'aspetto fondamentale è che quando si parla di "eutanasia" si suppone un intervento umano che presuppone la richiesta o il consenso di un paziente alle fasi finali che volontariamente accetta in qualche modo di porre fine ai propri giorni. Senza la volontarietà non è "eutanasia": ecco perché il programma nazista non c'entra niente. Là non c'era alcun consenso degli interessati (né alcuna malattia), era solo la pura eliminazione fisica.
Se andiamo a vedere il tipo di intervento in questione, può essere un'azione o un'omissione. Di solito con "eutanasia" si intende quella attiva consistente in un atto che anticipa la morte su richiesta del paziente interessato. Si parlava anche di "eutanasia" passiva quando c'è l'omissione di interventi dovuti, e qui si presenta il problema di sapere quali essi siano. Infatti, sembrerebbero non dovuti quelli che provocano l'accanimento terapeutico, mentre sarebbero dovuti tutti gli altri. Il problema di questo modo di impostare il problema è che nessuno dice di fare l'accanimento che è una "cosa cattiva". Che cos'è "accanimento"? A suo tempo si disse che il respiratore di Welby non era accanimento. Adesso si dice lo stesso con Eluana. Ancora, alcuni distinguono tra le "terapie mediche" e i "mezzi di sostentamento di base", osservando che alimentazione e idratazione non sono terapie ma assistenza umana. Tutte queste distinzioni servono per puntellare l'etica della sacralità della vita secondo cui la vita umana è buona in sé (a prescindere dai contenuti), per cui le scelte al riguardo non spettano all'interessato. Assomigliano agli epicicli che venivano introdotti per far collimare il sistema tolemaico: bastava aggiungerne uno per riuscire a spiegare l'anomalia.
Sarebbe meglio abolire tutti quei termini e distinzioni per restare alla volontarietà degli interventi. Nessuno ha la facoltà di farmi i capelli (fosse anche solo per ragioni estetiche) senza il mio consenso: così le cure, siano esse di qualsiasi tipo. E il punto da considerare è che nelle società moderne la fine della vita è sempre - lo si voglia o no - sempre "decisa" o "scelta". Questo punto è diventato chiaro anche quando Eluana ha avuto l'emorragia che l'ha messa in pericolo e si è deciso e scelto di non fare alcuna trasfusione di sangue: se fosse morta allora, quella non era una "morte naturale", ma sempre decisa perché si è scelto di non trasfondere sangue pur avendone la possibilità. Il problema da chiarire riguarda le diverse ragioni che giustificano la scelta nell'uno o nell'altro senso.
Ma in ogni caso, sempre di "scelta" si tratta, ed è per questo che è preferibile limitare il termine "eutanasia" solo a quella attiva cioè solo al caso in cui si procede con un'azione specifica a causare la morte in un paziente che lo ha richiesto. Nel caso di Eluana, però, così non è ed è per questo che non ha senso parlare di "eutanasia".
L'altro punto che colpisce l'attenzione guardando la rassegna stampa è l'insistenza con cui si sottolinea che la "cosa giusta" è lasciare Eluana alle cure delle suore Misericordine, lasciando intendere che eccessiva sarebbe l'insistenza di Beppino nel chiedere il rispetto della volontà di Eluana. Così si mandano in onda in prima serata casi di "risveglio" e di altre situazioni di malattia diverse dallo stato vegetativo (e che quindi non c'entrano niente) per evocare assonanze indebite e far credere che Beppino sia stato travolto da eccesso di sofferenza. A volte quest'insistenza assume un sentimentalismo melenso e stucchevole, altre viene ammantato di toni legati alla sacralità della vita. Resta che Beppino ci fa la figura del cattivo senza cuore, disposto a tutto pur di giungere al suo scopo - anche a far morire la figlia di "morte atroce" cioè tra grandi sofferenze.
Anche qui si usano i termini a vanvera, e c'è bisogno di precisarli. Come riconosce anche Francesco D'Agostino, «Eluana, come tutti i malati in coma, non soffre. …far morire d'inedia un malato, sospendendogli alimentazione e idratazione, è intuitivamente atroce, non perché il malato soffra, ma per la valenza di freddo distacco da lui che è implicita nella sospensione delle cure» ( Avvenire , 11 luglio 2008). L'atrocità della morte, quindi, non riguarda Eluana, la quale non soffre perché i centri nervosi della sofferenza sono distrutti. E le terapie previste anche dalla corte d'Appello sono per mantenere la compostezza del decesso, non per togliere sofferenze che non ci possono essere.
Chiarito questo, il problema per D'Agostino è "intuitivamente atroce" il fatto di sospendere la nutrizione perché sul piano simbolico questo indica un "freddo distacco" umano. Quest'intuizione di D'Agostino, però, dipende forse dal suo personale mondo simbolico, che forse non tiene conto della realtà morale da considerare. Infatti, tralasciando il fatto se ad Eluana si possa fare del "bene" o del "male", il problema vero è che non sempre atti benefici sono moralmente buoni. Ad esempio, dare un'elemosina ad un indigente è atto benefico, ma ove non fosse richiesta o fosse non voluta, sarebbe offensivo farla ed anche proporla.
Per questo, insistere nel chiedere che venga accolta l'offerta delle suore (quand'anche fosse in qualche senso "benefica") è qualcosa d'improprio. Grande è la cortesia di Beppino che non replica e che sopporta con pazienza anche quest'ennesimo affronto, mostrando di essere davvero una persona di straordinaria caratura morale.

NOTE

Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, Università di Torino

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