venerdì 14 novembre 2008

Il diritto di dire basta

Il diritto di dire basta

La Stampa del 14 novembre 2008, pag. 1

di Carlo Federico Grosso
Per il Vaticano interrompere l’alimentazione artificiale di Eluana Englaro costituisce omicidio doloso, addirittura un assassinio: lo ha dichiarato ieri l’altro il cardinale Barragan, presidente del Pontificio Consiglio per la Salute. E ieri sera mons. Fisichella commentava: «È eutanasia di fatto e di diritto». La Cassazione, un anno fa, aveva valutato diversamente. Con un’importante interpretazione della legislazione vigente, aveva affermato che, a determinate condizioni, sospendere la somministrazione artificiale di sostanze vitali a una persona che si trova in stato vegetativo irreversibile costituisce esercizio legittimo di un diritto. È pacifico che ogni persona capace d’intendere e di volere ha il diritto di rifiutare le cure mediche e di lasciarsi morire.

Lo si ricava dalle norme costituzionali (artt. 2, 13, 32 Cost.), dalle fonti giuridiche soprannazionali (Convenzione di Oviedo e Carta dei diritti fondamentali dell’Ue), dalla giurisprudenza ben salda della Corte di Cassazione in materia di consenso informato quale condizione di liceità dell’intervento medico. Ciò significa che ognuno di noi ha la facoltà di rifiutare una terapia in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale: si tratta dell’esercizio di un diritto fondamentale di libertà. Né si può sostenere che il rifiuto consapevole delle cure, quando conduca alla morte, costituisca un’ipotesi di eutanasia: tale rifiuto esprime, semplicemente, la libera scelta del malato che la malattia segua il suo decorso naturale.

Il problema, a questo punto, è stabilire quale sia la regola applicabile ove il malato non sia in grado di manifestare la sua volontà. La Cassazione, un anno fa, ha stabilito che può decidere il tutore. Se una persona è portata in stato di incoscienza a un pronto soccorso, il medico deve subito effettuare gli interventi urgenti imposti dal migliore interesse terapeutico. Superata l’urgenza, si ripropone peraltro la problematica del consenso informato: il medico che spiega, il paziente che decide, questa volta attraverso la volontà espressa dal suo tutore, soggetto al quale il codice civile riconosce rappresentanza anche con riferimento alla sfera degli interessi non patrimoniali.

Il carattere personalissimo del diritto alla salute impedisce tuttavia che al rappresentante legale possano essere trasferiti poteri incondizionati. Il tutore dovrà decidere, ha stabilito la Cassazione, non «al posto» del malato, ma «insieme a lui», ricostruendo la presunta volontà del paziente inconsapevole tenendo conto dei desideri da lui espressi quando era cosciente ovvero desumendo la sua volontà, dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori, dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali. Di qui l’importante principio di diritto enunciato. In caso di malato incapace tenuto artificialmente in vita, il giudice può autorizzare la disattivazione del presidio sanitario, ma unicamente quando sia provato con certezza che lo stato vegetativo è irreversibile e che la richiesta d’interruzione da parte del rappresentante legale corrisponde alla presumibile volontà del paziente. In applicazione di questo principio di diritto la Corte d’Appello di Milano, alla quale la Cassazione aveva rinviato la causa per la decisione di merito, verificata l’esistenza dei menzionati presupposti, a metà 2008 ha autorizzato l’interruzione dell’alimentazione artificiale di Eluana Englaro.

Questa decisione potrà essere condivisa, potrà essere criticata. Si tratta, in ogni caso, di un’importante operazione interpretativa «per principi» della legislazione italiana con la quale la Cassazione, in assenza di una regolamentazione specifica del testamento biologico, ha desunto la regola di giudizio applicabile attraverso un’attenta ricostruzione dei principi costituzionali, della giurisprudenza pregressa in tema di consenso informato, delle norme di diritto soprannazionale in materia.

In questo contesto, parlare d’illegittima autorizzazione all’omicidio mi sembra, quantomeno, indice di scarso rispetto per le istituzioni giudiziarie che hanno valutato e deciso. Non ho, d’altronde, mai dubitato che la suprema magistratura italiana non si sarebbe lasciata condizionare da pressioni esterne. La decisione di ieri, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della procura generale di Milano, conferma la libertà di giudizio dei nostri alti magistrati; ma, soprattutto, ha il grande merito di porre fine a una questione dalla grandissima rilevanza umana e sociale, sancendo il primato della libertà di decidere sulla volontà di proteggere a tutti i costi una vita in condizione vegetativa irreversibile, che non è più, propriamente, vita umana meritevole di ogni protezione giuridica.

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