giovedì 30 dicembre 2010

Monicelli: scelta privata e pubblico tabù

Monicelli: scelta privata e pubblico tabù

Sergio Bartolommei,L'Unità, il 01/12/10

Se dovessi essere costretto ad una vita che non è vita, la farei finita anch’io». Parole di Monicelli. Il suo suicidio cruento deve indurre a riflettere sulla opportunità di legalizzare l’eutanasia nel nostro Paese. «Cronaca di una morte opportuna» è il titolo di un libro dedicato al caso Welby - un caso scuola di uscita dalla vita dettata dal rifiuto delle cure. «Morte opportuna» - abbandoniamo ipocrisie e giri di parole - è però anche quella di chi, indisponibile a sperimentarne giorni strazianti di agonia, di perdita di autonomia e della coscienza di sé, intenda chiudere l’esistenza in modo immediato e indolore. Eutanasia e suicidio assistito sono i due modi in questione. È del tutto improprio e sottilmente violento opporsi con tutti i mezzi alla volontà degli individui che - date certe circostanze - non trovano più nella vita un motivo valido per continuare nell’impresa. A dover giustificare la propria posizione in merito all’eutanasia non sembra debba essere chi opta per vedere rispettata nello spazio pubblico la scelta di chi a mente lucida chiede con insistenza di vedere soddisfatta la richiesta di morire, ma chi voglia costringere altri a vivere contro la propria volontà.

Alla base del rifiuto del riconoscimento di qualche forma di eutanasia sta o la "ripugnanza" per il gesto, o il convincimento che "la vita è meravigliosa" e "la speranza sempre l’ultima a morire", o l’idea che la vita sia un dono indisponibile. Della ripugnanza basti dire che non è un argomento, ma solo il prodotto di una forte emozione non da tutti condivisa e che potrebbe contenere anche pregiudizi mai esaminati. L’argomento "meraviglia" può riguardare tutt’al più chi già nutra sentimenti o aspettative positivi per un’esistenza prolungata anche nelle condizioni più insopportabili, ma non chi non sia disposto a scambiare qualche giorno o mese in più nella vita con i contenuti - cattivi o orribili - che la vita gli riserva. Infine, che la vita sia un dono indisponibile tradisce solo una bizzarra concezione del dono che da bene gradito e fruibile diviene un amaro calice da bere fino all’ultima goccia contro il proprio volere.

La legalizzazione in determinate circostanze dell’eutanasia costituirebbe un passo avanti nella civilizzazione del Paese e della sua legislazione. Con essa non solo si eviterebbero le morti cruente e spesso dolorose a cui solitamente deve far ricorso chi abbia deciso di chiudere con l’avventura della vita. Si potrebbe soprattutto dare fiducia a quegli individui, pochi o tanti che siano, che, determinati a sottrarre nel più breve tempo e nella maniera più indolore possibile il proprio corpo a situazioni intollerabili, non dovrebbero più temere quella sorta di pedagogia nera messa in scena al loro capezzale per far sentire loro che, alla fine della vita, il loro vero bene consiste nel fare l’esatto contrario di ciò che desiderano.

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