l’Unità 2.2.10
La coscienza dei medici i diritti delle donne. Gli ospedali nelle mani degli obiettori
Mario Riccio
Anche gli infermieri italiani criticano duramente il ddl Calabrò, al punto di appellarsi alla “clausola di coscienza” prevista dal loro Codice deontologico pur di non applicare i precetti più contrari alla normale pratica sanitaria. Questa soluzione mi sollecita a riflettere sulla compatibilità tra l’esigenza di garantire alcune forme di obiezione di coscienza e l’efficiente erogazione della prestazione al cittadino. Sembra infatti diffusa l’idea che l’obiezione di coscienza del sanitario possa limitare l’erogazione del servizio: tesi non vera. Per capirlo, esaminiamo le problematiche che riguardano l’interruzione di gravidanza: la metodica cosiddetta chirurgica. Per via dell’elevato numero di obiettori sembra che in molte realtà ospedaliere i tempi di attesa per effettuare una interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) siano talmente lunghi da rischiare che venga superato il termine massimo delle 12 settimane di gestazione. Addirittura vi sono ospedali che sostengono di non poter erogare la prestazione per l’assoluta mancanza di personale sanitario non obiettore. Non sono in grado di valutare se in questo caso sia violato il diritto costituzionale alla tutela della salute. Una ordinaria prestazione sanitaria – come l’Ivg – non viene erogata laddove risiede il cittadino che ne fa richiesta. Costringendo pertanto, nella fattispecie, la donna ad un umiliante peregrinare alla ricerca della struttura accettante più vicina. In verità gli ospedali, al fine di ridurre le liste di attesa, sono autorizzati – qualora non obbligati – ad attuare quanto stabilito nei decreti Bindi del 1999. Ovvero a richiedere ai propri dipendenti prestazioni aggiuntive di tipo libero professionale, al di fuori dell’orario contrattuale e remunerate a parte. Si intende che il costo di dette prestazioni è a carico del Sistema sanitario nazionale e non certo dell’utente. Pertanto ogni ospedale potrebbe facilmente ridurre, se addirittura non azzerare, il tempo di attesa per l’Ivg incentivando il personale non obiettore con richieste di sedute aggiuntive. Un ospedale può anche richiedere personale proveniente da altra struttura ospedaliera qualora la richiesta vada inevasa al proprio interno. Inoltre così procedendo, nessuna struttura ospedaliera si troverebbe a dover rifiutare una prestazione sanitaria – l’Ivg o altre – che oltretutto molto spesso riveste carattere d’urgenza, per i suddetti limiti temporali imposti dalla legge. Tale sistema incentivante è già oggi largamente praticato, per altre prestazioni – per lo più chirurgiche – derivanti dalla presenza di operatori di eccellenza per un determinato intervento. Potrebbe essere applicato per risolvere l’umiliante e talvolta tragica condizione delle donne costrette a mendicare il proprio diritto a interrompere – in sicurezza e legalità – una gravidanza non voluta.
Mario Riccio è membro della Consulta di Bioetica, Milano
La coscienza dei medici i diritti delle donne. Gli ospedali nelle mani degli obiettori
Mario Riccio
Anche gli infermieri italiani criticano duramente il ddl Calabrò, al punto di appellarsi alla “clausola di coscienza” prevista dal loro Codice deontologico pur di non applicare i precetti più contrari alla normale pratica sanitaria. Questa soluzione mi sollecita a riflettere sulla compatibilità tra l’esigenza di garantire alcune forme di obiezione di coscienza e l’efficiente erogazione della prestazione al cittadino. Sembra infatti diffusa l’idea che l’obiezione di coscienza del sanitario possa limitare l’erogazione del servizio: tesi non vera. Per capirlo, esaminiamo le problematiche che riguardano l’interruzione di gravidanza: la metodica cosiddetta chirurgica. Per via dell’elevato numero di obiettori sembra che in molte realtà ospedaliere i tempi di attesa per effettuare una interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) siano talmente lunghi da rischiare che venga superato il termine massimo delle 12 settimane di gestazione. Addirittura vi sono ospedali che sostengono di non poter erogare la prestazione per l’assoluta mancanza di personale sanitario non obiettore. Non sono in grado di valutare se in questo caso sia violato il diritto costituzionale alla tutela della salute. Una ordinaria prestazione sanitaria – come l’Ivg – non viene erogata laddove risiede il cittadino che ne fa richiesta. Costringendo pertanto, nella fattispecie, la donna ad un umiliante peregrinare alla ricerca della struttura accettante più vicina. In verità gli ospedali, al fine di ridurre le liste di attesa, sono autorizzati – qualora non obbligati – ad attuare quanto stabilito nei decreti Bindi del 1999. Ovvero a richiedere ai propri dipendenti prestazioni aggiuntive di tipo libero professionale, al di fuori dell’orario contrattuale e remunerate a parte. Si intende che il costo di dette prestazioni è a carico del Sistema sanitario nazionale e non certo dell’utente. Pertanto ogni ospedale potrebbe facilmente ridurre, se addirittura non azzerare, il tempo di attesa per l’Ivg incentivando il personale non obiettore con richieste di sedute aggiuntive. Un ospedale può anche richiedere personale proveniente da altra struttura ospedaliera qualora la richiesta vada inevasa al proprio interno. Inoltre così procedendo, nessuna struttura ospedaliera si troverebbe a dover rifiutare una prestazione sanitaria – l’Ivg o altre – che oltretutto molto spesso riveste carattere d’urgenza, per i suddetti limiti temporali imposti dalla legge. Tale sistema incentivante è già oggi largamente praticato, per altre prestazioni – per lo più chirurgiche – derivanti dalla presenza di operatori di eccellenza per un determinato intervento. Potrebbe essere applicato per risolvere l’umiliante e talvolta tragica condizione delle donne costrette a mendicare il proprio diritto a interrompere – in sicurezza e legalità – una gravidanza non voluta.
Mario Riccio è membro della Consulta di Bioetica, Milano
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