mercoledì 20 gennaio 2010

La legge 40 non regge più

La legge 40 non regge più

Europa. 15 gennaio 2010

Roberto Mordacci

Una sentenza del tribunale di Salerno ha autorizzato, per la prima volta in Italia, la diagnosi genetica preimpianto di embrioni.
La coppia che ne ha fatto richiesta è portatrice sana di una gravissima malattia genetica, l’atrofia muscolare spinale di tipo 1 (Sma1), che causa una progressiva paralisi della muscolatura e provoca la morte del bambino entro il primo anno di vita. La coppia ha già un figlio sano, ma la donna ha avuto in precedenza una figlia malata, morta a sette mesi, e tre aborti che seguivano a diagnosi prenatali che avevano diagnosticato la malattia nei feti.
Il giudice Antonio Scarpa ha così motivato la sentenza: «Il diritto a procreare e lo stesso diritto alla salute dei soggetti coinvolti verrebbero irrimediabilmente lesi da una interpretazione delle norme in esame che impedissero il ricorso alle tecniche di pma (procreazione medicalmente assistita) da parte di coppie, pur non infertili o sterili, che però rischiano concretamente di procreare figli affetti da gravi malattie, a causa di patologie geneticamente trasmissibili».
«Solo la pma, attraverso la diagnosi preimpianto, e quindi l’impianto solo degli embrioni sani, mediante una lettura “costituzionalmente” orientata dell’art. 13 L.cit. [la legge 40 del 2004], consentono di scongiurare un simile rischio».
Sottotraccia appare chiaro che il giudice ha ritenuto che sia più pericoloso (diritto alla salute) e anche lesivo dei diritti implicitamente riconosciuti dalla legge 40 (dove per la verità non si parla di «diritto a procreare», ma dove si rende lecita a certe condizioni la pma) non consentire la diagnosi genetica prima dell’impianto in utero. La diagnosi preimpianto, infatti, evita il ricorso alla diagnosi prenatale a gravidanza iniziata e l’eventuale aborto (consentito in questi casi dalla legge 194).
Quest’ultimo e la diagnosi in utero, in effetti, non sono privi di rischi per la donna, mentre la diagnosi prenatale consente di non immettere nel suo corpo gli embrioni malati.
Non è del tutto insensato, quindi, dire che la sentenza mira a tutelare la salute della donna evitandole il ricorso a pratiche potenzialmente pericolose per lei. Questo argomentazione appare dunque sensata nell’ottica della legge 194, ma non in quella della legge 40, che antepone i diritti dell’embrione a quelli della donna: questo contrasto non potrà che continuare ad emergere e bisognerà, prima o poi, porvi rimedio.
Vi sono tuttavia anche considerazioni di altro genere. Le tecniche di procreazione assistita generano dilemmi che è riduttivo ricondurre solo a un «progetto eugenetico», come fa il sottosegretario Eugenia Roccella, ieri intervistata da molti giornali. Bisogna però riconoscere senza infingimenti che, in un caso come questo, si tratta (oltre che del diritto alla salute della donna) anche di un giudizio sulla qualità della vita del nascituro: tanto la coppia quanto la comunità civile deve scegliere fra la responsabilità di avviare allo sviluppo un bambino che non supererà l’anno di vita in condizioni tragiche e quella di non offrirgli una chance di vita, sia pure in tali condizioni.
Obbligare l’impianto degli embrioni in queste condizioni significa obbligare la donna ai rischi richiamati sopra; consentire il non impianto significa ritenere che per l’embrione malato la possibilità di impiantarsi e crescere è un bene molto limitato e problematico, considerato il tipo di esistenza che lo attende. Ora, non si esce da questo dilemma se non riconoscendo che la vita accade molto spesso in condizioni fragili e drammatiche; e che, per questo, la vita stessa non è l’unica considerazione in gioco. La sofferenza (del bambino, della madre, della famiglia), il rischio e anche la libertà delle persone (la decisione di abortire o di volere la nascita di un bambino malato) sono sempre coinvolte.
Accusare di mentalità eugenetica le persone coinvolte in questi dilemmi è un segno di insensibilità e di moralismo.
Si tratta in realtà di un bilanciamento fra scelte comunque gravi. È un principio comune difendere la vita con i mezzi a nostra disposizione.
Tuttavia, questi mezzi contro una malattia come la Sma1 sono inermi. L’aspetto tragico è in questo destino del bambino, di cui nessuno ha colpa. È qui che si apre il dilemma che riguarda la madre: si può davvero pensare che tutte le donne debbano obbligatoriamente avviare una gravidanza in queste condizioni? E perché, visto che il legislatore ha riconosciuto che, proprio in queste condizioni, è facoltà della donna non continuare una gravidanza iniziata? Questo passo indietro della legge, che tutela la vita ma non obbliga le persone in casi tragici, appare il segno di una sofferta saggezza: quando la possibilità di una vita si presenta a quelle condizioni e per così poco tempo, prima ancora di giudicarne il valore si può forse riconoscere l’impossibilità di obbligare qualcuno a rischiare e soffrire gravemente per essa intesa come principio assoluto. Mi pare almeno in parte questo il significato morale della legge 194: un’attenzione alle persone che contrasta con l’astratta purezza di certi principi della legge 40.

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