mercoledì 3 febbraio 2010

Dopo Englaro quanto tempo è stato perso

Dopo Englaro quanto tempo è stato perso

Il gazzettino del 3 febbraio 2010

Francesco Paolo Casavola

E passato un anno dalla fine di Eluana Englaro. La emozione che allora tutti ci coinvolse, quale che fosse la scelta reclamata, della vita ad oltranza o della sua cessazione, sembra rimossa. La memoria di quei giorni doveva essere custodita dal Parlamento, cui si demandava il compito di preparare una legge sul fine vita. Un testo apprestato, sulla base di una decina di proposte, dal Senato, è fermo alla Camera, che dovrebbe correggerlo e restituirlo al primo ramo, da cui dovrà riprendere un secondo
percorso. Il clima di contesa tra poteri, che colorò la sentenza dei giudici come un atto di usurpazione di prerogative legislative, fino a produrre un conflitto di attribuzione tra Parlamento
e magistratura dinanzi alla Corte costituzionale, parve sollecitare la via di una legge. La attendiamo e la auspichiamo ancora, più che mai. In primo luogo, perché vicende dolorose di vite protratte o di morti differite sono assai più numerose di quante non rivelino le cronache, e destinate a moltiplicarsi in ragione dei progressi della bíomedícina e dell`uso dei suoi ritrovati. In secondo luogo, perché la società non è attraversata e guidata da persuasioni univoche dinanzi al rispetto della vita e della morte. Da un lato è in discussione la competenza e la decisione del medico, dall`altro il desiderio del pazíente-e dei familiari. Sul primo versante si teme o l`abbandono o l`accanimento terapeutico, sul secondo la richiesta eutanasica, motivata dalla insopportabilità della sofferenza direttamente patita o
indirettamente osservata. Va da sé che una nuova legge non potrebbe mai allinearsi a quegli ordinamenti che prevedono il diritto a morire, perché è per noi inderogabile il principio della salvaguardia della vita. Ma il secondo comma dell`articolo 32, della nostra Costituzione vieta che si sottoponga una persona ad un trattamento sanitario contro la propria volontà. Occorre intendere bene in quale spazio opera il principio di autodeterminazione. Non certo fino al punto di consentire il suicidio. Ma sì, invece, nel rifiutare trattamenti, invasivi delle corporeità, e dunque di quella sfera della persona, dai confini, dì per sé inviolabili. Fanno problema quei trattamenti considerati non unanimemente sostegno vitale e non terapeutici, come l`idratazione e l`alimentazione forzata. Se dal
cosiddetto testamento biologico fosse bandita la disposizione di rifiuto di tali sostegni vitali, a
molti apparirebbe violato il principio costituzionale di autodeterminazione. Questo è il punto morto cui sembra essersi fermato il dibattito parlamentare. Per superarlo occorre aprirsi due vie. La prima è quella di eliminare ogni condizionamento della volontà del malato terminale.
Bisogna liberarlo dal terrore della morte lenta.
La medicina palliativa, da noi finora trascurata, deve poter investire tutte le sue risorse, farmacologiche e psicoterapiche. La seconda è di cercare una convergenza tra scienza medica e bioetica su che cosa sia vita degna della persona umana, e su che cosa sia invece illusione tecnologica. Anziché volere lo scontro tra laici e cattolici, si provi a risolvere le contraddizioni all`interno di argomenti razionali, che scienze della vita e filosofie della vita contengono nella giusta e sufficiente misura.

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