giovedì 2 ottobre 2008

Ma quale libero dibattito Senato succube della Cei

Ma quale libero dibattito Senato succube della Cei
Liberazione del 2 ottobre 2008, pag. 1

di Maurizio Mori
Sarà senza dubbio una pura coincidenza, una di quelle frutto del cieco caso e ben lontana da ogni disegno precostituito o "provvidenziale", ma la Commissione del Senato ha aspettato il comunicato finale della Cei prima di cominciare i lavori. Anzi, i lavori iniziano all'indomani, in segno di deferente rispetto all'autorevole pronunciamento… Diamine! Che volete che ne sappiano i nostri Senatori sui temi eticamente sensibili? Mica possono decidere con la loro testa! Sono cose gravi e delicate, e bisogna ascoltare quelli che più ne sanno: e così si è atteso il comunicato finale della Conferenza episcopale Italiana che ha ben chiarito la posizione della chiesa cattolica romana al riguardo. Poi, naturalmente, i senatori saranno liberi di scegliere, ma adesso agli italiani è chiara la differenza tra l'errore e la verità!
E se qualcuno dovesse deviare da quanto stabilito dalla Cei, ovviamente sarà il solito laicista, individualista, nichilista, cavaliere della "cultura della morte", e via dicendo con tanti bei complimenti.
A parte gli scherzi, vedremo che piega prenderanno i lavori parlamentari. Per adesso sul piano culturale il comunicato finale della Cei è interessante perché offre l'interpretazione autentica delle parole pronunciate dal cardinale Bagnasco nella prolusione di apertura, precisando senza incertezze la posizione della chiesa cattolica romana: la legge non deve riguardare il «testamento biologico, espressione di una cultura dell'autodeterminazione», perché questo sarebbe legittimare la sovranità della persona circa le scelte sulla fine della vita (e quindi anche sul proprio corpo). È invece fattibile una legge sulla fine della vita, che avrebbe due funzioni: 1) bloccare subito le sentenze dei giudici che, in ossequio alla Costituzione repubblicana, mostrano aperture all'autodeterminazione; 2) fare in modo che «non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l'ordinamento italiano».
Si potrebbe osservare che le affermazioni non si limitano all'ambito morale, ma entrano nel vivo di questioni giuridiche ben precise, sollevando un problema di "competenza", ma queste considerazioni sono ormai di tempi passati e lontani, quando il senso delle istituzioni statali era più marcato. Oggi viviamo nella "società liquida" in cui i vescovi discettano di diritto e avanzano la pretesa di essere gli interpreti della Costituzione italiana, ed è vano ricordare che, forse, il loro compito dovrebbe limitarsi ad altri campi. Prendo atto dei tempi, e considero il punto di fondo sotteso al loro discorso che è contro l'autodeterminazione circa la propria vita biologica.
Dicendo che va esaltato il favor vitae e che vanno «evitate forme mascherate di eutanasia», i vescovi vengono a rimettere in discussione lo stesso consenso informato del paziente stesso. Infatti, la nozione di eutanasia è oggi abbastanza chiara: è l'atto con cui si causa la morte di un paziente che è in una situazione infernale e che ha chiesto di essere esentato dal permanere in tale condizione. In parole povere è dare un'iniezione che ponga fine alle sofferenze di un paziente senza scampo che aveva chiesto di essere risparmiato da tale scempio. Fin qui, si potrà condividere o no, ma il discorso è chiaro.
Ma quali sono le forme di eutanasia mascherata o di abbandono terapeutico? Questo lo sanno solo i vescovi e chi segue le loro direttive. Ci troviamo di fronte a belle espressioni che non hanno un significato preciso, la cui interpretazione più accreditata è quella che rimanda alla esaltazione del favor vitae , ossia dell'idea che i dinamismi vitali vanno sempre rispettati e favoriti come chiede l'etica della sacralità della vita. In altre parole, ci si chiede di accettare "a scatola chiusa" l'antica idea dell'ippocratismo secondo cui è il medico che conosce il bene del paziente, perché il medico conosce i dinamismi vitali che sono di per sé sempre buoni. La volontà del paziente non c'entra nulla, a meno che sia conforme con questo indirizzo - perché altrimenti si ha qualche forma di eutanasia mascherata o di abbandono terapeutico.
C'è una profonda coerenza in quest'impostazione. Per la chiesa cattolica romana il cittadino è libero e sovrano di decidere solo nei limiti stabiliti dal diritto naturale, che stabilisce i binari entro cui si esercita l'"autentica libertà". Ove pretendesse di uscire da quei binari trasformerebbe la libertà in licenza, facendo qualcosa di simile ad un treno che pretendesse di uscire dalle rotaie. Questo vale già nel campo politico e familiare, ed a maggior ragione in quello circa la propria vita. Il punto importante da capire è il seguente: il testamento biologico non è altro che uno strumento con cui estendere il consenso informato a situazioni in cui il cittadino non è più in grado di esprimere direttamente le proprie volontà. Ci vuole una buona legge che regoli i numerosi dettagli pratici richiesti dall'esercizio di questo diritto. Rifiutando il testamento biologico, la Cei viene a rimettere in discussione lo stesso consenso informato e in generale il diritto del cittadino di rifiutare le cure (forma di abbandono terapeutico), per riaffermare il vitalismo ippocratico.
Se così fosse sarebbe disastroso, e riporterebbe l'Italia indietro di 30 anni. Ma questa sembra essere la strada imboccata dalla Cei, che sfrutta la grande confusione teorica presente nel paese. Speriamo che l'operazione non riesca, e che il buon senso dei cittadini prevalga. La situazione, però, è difficile perché la nuova coscienza civile trova scarsa rappresentanza sul piano politico.

NOTE

Presidente della Consulta di Bioetica, Università di Torino

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