l’Unità 18.10.08
Il dramma di Eluana, la lezione della Corte
di Tania Groppi
La preoccupazione per la sorte di Eluana Englaro dopo i drammatici eventi degli ultimi giorni ha riportato al centro dell’attenzione il suo corpo conteso, facendo apparire sbiadite e remote le dispute giuridiche di cui è stato oggetto.
Ciò è certamente comprensibile. Tuttavia, non si può ignorare l’importanza della ordinanza emessa, qualche giorno or sono, dalla Corte costituzionale, chiamata anch’essa a pronunciarsi, dopo la Corte d’appello di Milano e la Corte di cassazione.
Le Corti costituzionali, e tra esse quella italiana, una delle più antiche ed autorevoli, sono organi all’antica. In un mondo in preda alla frenesia dell’effimero e al culto dell’apparire, si muovono caute con passi felpati, cercando di far parlare di sé il meno possibile. I giudici costituzionali rifuggono le interviste, i talk show, i titoli e finanche le lettere ai giornali. Essi parlano soltanto se interpellati, attraverso le loro pronunce, per di più ammantate dalla copertura della collegialità
A volte una tale riservatezza può far dubitare della loro capacità di comunicare e persino di mantenere un contatto con la realtà del proprio tempo. Ma questo silenzio è ben lontano dall’assenza. Esso è segno di una presenza vigile e tenace, che non alza la guardia quando si tratta di difendere la Costituzione.
Di ciò ci ha appena offerto un esempio la nostra Corte costituzionale, che nel breve volgere di un paio di mesi ha sgombrato il campo da uno dei più inquietanti atti con cui mai un parlamento si sia contrapposto al potere giudiziario: il conflitto sollevato da Camera e Senato a difesa, si è detto, della propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di cassazione aveva reputato legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
Un conflitto che ha fatto sgranare gli occhi ai costituzionalisti di tutto il mondo: mai, nella tensione che di sovente attraversa i rapporti tra potere politico e giudici, si era giunti al punto di negare al potere giudiziario la possibilità, in assenza di una legge, di decidere un caso applicando direttamente i principi costituzionali.
Ciò significa infatti negare l’essenza stessa della forma di Stato costituzionale. Nel quale il ruolo del giudice non è quello di mero applicatore della legge, come accadeva nello stato legislativo ottocentesco. Egli è chiamato a far valere a supremazia della Costituzione, nelle forme previste dall’ordinamento. Ciò che comporta, quando una legge da applicare non vi sia, il diretto richiamo ai principi costituzionali.
La Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità del ricorso, in camera di consiglio e con ordinanza, affermando che non vi è materia per un conflitto di attribuzione: la Cassazione non ha indebitamente legiferato, ma si è limitata a fare quel che spetta ad ogni giudice, ovvero decidere un caso concreto; e il parlamento si lamenta semplicemente del contenuto di questa pronuncia, che gli risulta sgradita. E’ sufficiente alla Corte richiamare la sua consolidata giurisprudenza, secondo la quale il conflitto di attribuzione «non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici». Ed è agevole concludere che «d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».
Al di là delle conseguenze sul drammatico caso di Eluana, ancora lontano dall’essere concluso (la Corte di cassazione si dovrà pronunciare di nuovo, ad inizio novembre), la sintetica e chiara ordinanza della Corte costituzionale assume suo malgrado una portata storica nella definizione dei rapporti tra i poteri. Altro che decisione pilatesca, come è stato incredibilmente e sfacciatamente commentato a caldo dagli esponenti politici della maggioranza. La Corte, affermando che, qualora il parlamento non legiferi su una materia, non può sollevare conflitto di attribuzione contro un giudice che applichi direttamente i principi costituzionali, riafferma l’essenza dello Stato costituzionale: ovvero la supremazia della costituzione e la sua capacità di pervadere ogni aspetto dell’ordinamento, senza la necessaria intermediazione del legislatore. Ci sembrava una ovvietà, insita già nella prima, celebre sentenza della Corte costituzionale, adottata più di 50 anni fa, ma evidentemente niente può essere dato per scontato nei tempi e nel clima politico in cui viviamo. Un clima nel quale diventa ancora più importante la difesa dell’indipendenza della Corte: l’ambiguità nella quale il Parlamento sta procedendo, dopo mesi e mesi di inadempienza, ad eleggere il quindicesimo giudice, non pare di buon auspicio per il futuro.
Il dramma di Eluana, la lezione della Corte
di Tania Groppi
La preoccupazione per la sorte di Eluana Englaro dopo i drammatici eventi degli ultimi giorni ha riportato al centro dell’attenzione il suo corpo conteso, facendo apparire sbiadite e remote le dispute giuridiche di cui è stato oggetto.
Ciò è certamente comprensibile. Tuttavia, non si può ignorare l’importanza della ordinanza emessa, qualche giorno or sono, dalla Corte costituzionale, chiamata anch’essa a pronunciarsi, dopo la Corte d’appello di Milano e la Corte di cassazione.
Le Corti costituzionali, e tra esse quella italiana, una delle più antiche ed autorevoli, sono organi all’antica. In un mondo in preda alla frenesia dell’effimero e al culto dell’apparire, si muovono caute con passi felpati, cercando di far parlare di sé il meno possibile. I giudici costituzionali rifuggono le interviste, i talk show, i titoli e finanche le lettere ai giornali. Essi parlano soltanto se interpellati, attraverso le loro pronunce, per di più ammantate dalla copertura della collegialità
A volte una tale riservatezza può far dubitare della loro capacità di comunicare e persino di mantenere un contatto con la realtà del proprio tempo. Ma questo silenzio è ben lontano dall’assenza. Esso è segno di una presenza vigile e tenace, che non alza la guardia quando si tratta di difendere la Costituzione.
Di ciò ci ha appena offerto un esempio la nostra Corte costituzionale, che nel breve volgere di un paio di mesi ha sgombrato il campo da uno dei più inquietanti atti con cui mai un parlamento si sia contrapposto al potere giudiziario: il conflitto sollevato da Camera e Senato a difesa, si è detto, della propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di cassazione aveva reputato legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
Un conflitto che ha fatto sgranare gli occhi ai costituzionalisti di tutto il mondo: mai, nella tensione che di sovente attraversa i rapporti tra potere politico e giudici, si era giunti al punto di negare al potere giudiziario la possibilità, in assenza di una legge, di decidere un caso applicando direttamente i principi costituzionali.
Ciò significa infatti negare l’essenza stessa della forma di Stato costituzionale. Nel quale il ruolo del giudice non è quello di mero applicatore della legge, come accadeva nello stato legislativo ottocentesco. Egli è chiamato a far valere a supremazia della Costituzione, nelle forme previste dall’ordinamento. Ciò che comporta, quando una legge da applicare non vi sia, il diretto richiamo ai principi costituzionali.
La Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità del ricorso, in camera di consiglio e con ordinanza, affermando che non vi è materia per un conflitto di attribuzione: la Cassazione non ha indebitamente legiferato, ma si è limitata a fare quel che spetta ad ogni giudice, ovvero decidere un caso concreto; e il parlamento si lamenta semplicemente del contenuto di questa pronuncia, che gli risulta sgradita. E’ sufficiente alla Corte richiamare la sua consolidata giurisprudenza, secondo la quale il conflitto di attribuzione «non può essere trasformato in un atipico mezzo di gravame avverso le pronunce dei giudici». Ed è agevole concludere che «d’altra parte, il Parlamento può in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».
Al di là delle conseguenze sul drammatico caso di Eluana, ancora lontano dall’essere concluso (la Corte di cassazione si dovrà pronunciare di nuovo, ad inizio novembre), la sintetica e chiara ordinanza della Corte costituzionale assume suo malgrado una portata storica nella definizione dei rapporti tra i poteri. Altro che decisione pilatesca, come è stato incredibilmente e sfacciatamente commentato a caldo dagli esponenti politici della maggioranza. La Corte, affermando che, qualora il parlamento non legiferi su una materia, non può sollevare conflitto di attribuzione contro un giudice che applichi direttamente i principi costituzionali, riafferma l’essenza dello Stato costituzionale: ovvero la supremazia della costituzione e la sua capacità di pervadere ogni aspetto dell’ordinamento, senza la necessaria intermediazione del legislatore. Ci sembrava una ovvietà, insita già nella prima, celebre sentenza della Corte costituzionale, adottata più di 50 anni fa, ma evidentemente niente può essere dato per scontato nei tempi e nel clima politico in cui viviamo. Un clima nel quale diventa ancora più importante la difesa dell’indipendenza della Corte: l’ambiguità nella quale il Parlamento sta procedendo, dopo mesi e mesi di inadempienza, ad eleggere il quindicesimo giudice, non pare di buon auspicio per il futuro.
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