Englaro eroe e vittima della giustizia
La Stampa del 11 settembre 2008, pag. 33
di Michele Ainis
Se il ministro Alfano insedierà una commissione di riforma per la giustizia riformata, a presiederla dovrebbe chiamare Beppino Englaro. Non tanto per la sua competenza sulle questioni etiche: materia per santi o per scienziati, e in Italia almeno i primi sono una falange. Quanto per la sua esperienza di labirinti giudiziari, dopo 11 anni trascorsi saltabeccando da un tribunale all’altro. Eluana, la figlia, è in stato vegetativo permanente dal 18 gennaio 1992. Nel ‘97 il padre s’è infilato per la prima volta in un’aula di giustizia, ottenendone la nomina a tutore. Lo scopo? Ricevere l’autorità legale per restituire alla morte quel corpo ridotto a uno zombie. Avrebbe potuto risolvere la faccenda all’italiana, portandosi Eluana a casa e «dimenticando» d’iniettarle la soluzione nutritiva. Nessuno avrebbe detto nulla, nessuno avrebbe mai saputo nulla. Avrebbe potuto scegliere un gesto di rottura, chiamando un anestesista al capezzale di famiglia, un altro Mario Riccio per un’altra Welby. Tanto a cose fatte nessun tribunale ti condanna. Ma lui no, non ha mai pensato di deragliare dai binari del diritto. Impartendoci una lezione: saranno pure fallaci e provvisorie le certezze che dispensa la giustizia umana, ma non ne abbiamo altre.
Sennonché la vicenda processuale di Beppino Englaro riflette come uno specchio deformante tutti i guai della giustizia italiana. Tre procedimenti autonomi, con un rimbalzo fra Lecco e Milano. Pattuglie d’avvocati. Due distinte - e opposte - decisioni della Corte d’appello di Milano, anche perché rese da due sezioni differenti. Altre due distinte - e nuovamente opposte - pronunzie della Cassazione, in attesa della terza. La nomina di un curatore speciale (l’avvocato Franca Alessio), dato che il papà come tutore non è abbastanza olimpico nelle proprie volizioni. Perizie, testimonianze (le amiche di Eluana), interrogatori come in un film di Perry Mason. Infine un decreto di 62 pagine, che autorizza il buon Beppino a interrompere il trattamento di sostegno, purché in un hospice e sotto vigilanza medica.
Fine della giostra? Macché. Il decreto della Corte d’appello di Milano reca la data del 25 giugno, ed è immediatamente esecutivo; ma sta di fatto che dopo oltre due mesi il suo destinatario non riesce a dargli esecuzione. L’ultimo in ordine di tempo è il «niet» della Regione Lombardia, che ha chiuso a chiave le proprie strutture sanitarie. Quel decreto giudiziario - ha detto il presidente Formigoni - viola le leggi, il codice deontologico dei medici, ma soprattutto offende «la mia personale convinzione». D’altronde se la giustizia è un’opinione, come negare la libertà d’opinione alla politica? E infatti da Toscana e Lazio, Regioni a maggioranza di sinistra, giungono profferte per accogliere Eluana. Mentre il Parlamento, dove la maggioranza pende a destra, spara un conflitto d’attribuzioni senza precedenti contro il verdetto della magistratura.
Deciderà perciò la Corte Costituzionale, trasformata in un improprio quarto grado di giudizio. Ma deciderà la stessa Corte d’appello di Milano, cui proprio ieri la Procura generale ha domandato di sospendere l’efficacia del decreto. E deciderà altresì la Cassazione, chiamata ancora in causa dal pg: e tre. Del resto ci sarà pure una ragione se nel 2006 i ricorsi civili pendenti in Cassazione hanno sforato il muro dei 100 mila. Se a quest’ultimo piano dell’apparato giudiziario - sulla carta aperto al pubblico solo in circostanze eccezionali - lavorano 350 magistrati, contro i 123 della Corte tedesca. Se in Italia gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono quasi 40 mila, in Francia meno d’un migliaio.
Scriveva Voltaire nel 1764: «Se a Parigi ci fossero 25 camere di giudici, ci sarebbero 25 giurisprudenze diverse». I 25 giudici di Eluana, nonché i 25 politici che baruffano coi primi, stanno lì a dargli ragione. Nel frattempo alla giustizia non ci crede più nessuno, tanto si sa che una sentenza non è mai una cosa seria. Ma almeno c’è rimasto lui, Beppino Englaro, a prenderla sul serio.
La Stampa del 11 settembre 2008, pag. 33
di Michele Ainis
Se il ministro Alfano insedierà una commissione di riforma per la giustizia riformata, a presiederla dovrebbe chiamare Beppino Englaro. Non tanto per la sua competenza sulle questioni etiche: materia per santi o per scienziati, e in Italia almeno i primi sono una falange. Quanto per la sua esperienza di labirinti giudiziari, dopo 11 anni trascorsi saltabeccando da un tribunale all’altro. Eluana, la figlia, è in stato vegetativo permanente dal 18 gennaio 1992. Nel ‘97 il padre s’è infilato per la prima volta in un’aula di giustizia, ottenendone la nomina a tutore. Lo scopo? Ricevere l’autorità legale per restituire alla morte quel corpo ridotto a uno zombie. Avrebbe potuto risolvere la faccenda all’italiana, portandosi Eluana a casa e «dimenticando» d’iniettarle la soluzione nutritiva. Nessuno avrebbe detto nulla, nessuno avrebbe mai saputo nulla. Avrebbe potuto scegliere un gesto di rottura, chiamando un anestesista al capezzale di famiglia, un altro Mario Riccio per un’altra Welby. Tanto a cose fatte nessun tribunale ti condanna. Ma lui no, non ha mai pensato di deragliare dai binari del diritto. Impartendoci una lezione: saranno pure fallaci e provvisorie le certezze che dispensa la giustizia umana, ma non ne abbiamo altre.
Sennonché la vicenda processuale di Beppino Englaro riflette come uno specchio deformante tutti i guai della giustizia italiana. Tre procedimenti autonomi, con un rimbalzo fra Lecco e Milano. Pattuglie d’avvocati. Due distinte - e opposte - decisioni della Corte d’appello di Milano, anche perché rese da due sezioni differenti. Altre due distinte - e nuovamente opposte - pronunzie della Cassazione, in attesa della terza. La nomina di un curatore speciale (l’avvocato Franca Alessio), dato che il papà come tutore non è abbastanza olimpico nelle proprie volizioni. Perizie, testimonianze (le amiche di Eluana), interrogatori come in un film di Perry Mason. Infine un decreto di 62 pagine, che autorizza il buon Beppino a interrompere il trattamento di sostegno, purché in un hospice e sotto vigilanza medica.
Fine della giostra? Macché. Il decreto della Corte d’appello di Milano reca la data del 25 giugno, ed è immediatamente esecutivo; ma sta di fatto che dopo oltre due mesi il suo destinatario non riesce a dargli esecuzione. L’ultimo in ordine di tempo è il «niet» della Regione Lombardia, che ha chiuso a chiave le proprie strutture sanitarie. Quel decreto giudiziario - ha detto il presidente Formigoni - viola le leggi, il codice deontologico dei medici, ma soprattutto offende «la mia personale convinzione». D’altronde se la giustizia è un’opinione, come negare la libertà d’opinione alla politica? E infatti da Toscana e Lazio, Regioni a maggioranza di sinistra, giungono profferte per accogliere Eluana. Mentre il Parlamento, dove la maggioranza pende a destra, spara un conflitto d’attribuzioni senza precedenti contro il verdetto della magistratura.
Deciderà perciò la Corte Costituzionale, trasformata in un improprio quarto grado di giudizio. Ma deciderà la stessa Corte d’appello di Milano, cui proprio ieri la Procura generale ha domandato di sospendere l’efficacia del decreto. E deciderà altresì la Cassazione, chiamata ancora in causa dal pg: e tre. Del resto ci sarà pure una ragione se nel 2006 i ricorsi civili pendenti in Cassazione hanno sforato il muro dei 100 mila. Se a quest’ultimo piano dell’apparato giudiziario - sulla carta aperto al pubblico solo in circostanze eccezionali - lavorano 350 magistrati, contro i 123 della Corte tedesca. Se in Italia gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono quasi 40 mila, in Francia meno d’un migliaio.
Scriveva Voltaire nel 1764: «Se a Parigi ci fossero 25 camere di giudici, ci sarebbero 25 giurisprudenze diverse». I 25 giudici di Eluana, nonché i 25 politici che baruffano coi primi, stanno lì a dargli ragione. Nel frattempo alla giustizia non ci crede più nessuno, tanto si sa che una sentenza non è mai una cosa seria. Ma almeno c’è rimasto lui, Beppino Englaro, a prenderla sul serio.
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