l’Unità 3.8.08
Come può Eluana dividere uno Stato?
di Tania Groppi
Il drammatico caso della giovane Eluana non divide soltanto le coscienze (e i gruppi parlamentari). Ma anche i poteri dello Stato. E costituisce l’ennesima occasione per un attacco alla magistratura.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento ha deciso di sollevare un conflitto tra poteri per difendere la propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione (e poi, di conseguenza, la Corte d’Appello di Milano) ha ritenuto legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
La maggioranza parlamentare, con un colpo di fantasia degno di un prestigiatore, di fronte alla mancanza di una legge sulla fine della vita, anziché procedere speditamente ad approvarla (riprendendo il lavoro già svolto nelle precedenti legislature in materia di testamento biologico), ha deciso invece di attaccare il potere giudiziario, nella specie la sua massima e più autorevole espressione, la Corte di Cassazione. Criticando i contenuti della sentenza dell’ottobre 2007 (definita “frettolosa”) ma soprattutto accusandola di avere un contenuto sostanzialmente legislativo. La Corte di Cassazione si sarebbe trasformata indebitamente da interprete del diritto in creatore del diritto, si sarebbe fatta legislatore, violando il principio della separazione dei poteri.
La questione viene quindi sottoposta alla Corte Costituzionale, che dovrà decidere nei prossimi mesi. Una nuova tappa in una lunga e drammatica vicenda umana e giuridica.
Una tappa peraltro anche di un’altra ormai annosa storia, che travaglia la nostra democrazia ben più di quanto avvenga in altri paesi. Si è di fronte, infatti, all’ennesimo tentativo di piegare le ragioni del diritto a quelle della lotta politica, attraverso l’utilizzazione impropria di uno strumento giuridico, il conflitto di attribuzione, al fine di affermare una concezione del diritto dei rapporti tra i poteri alternativa a quella prevista dalla nostra Costituzione.
Sul piano strettamente giuridico, infatti, i precedenti della Corte Costituzionale portano dritti alla manifesta inammissibilità del conflitto, in camera di consiglio e con ordinanza, già in sede di prima delibazione.
Basta richiamare due aspetti. Prima di tutto, la carenza di interesse a ricorrere. Le Camere lamentano l’invasione di una competenza, quella a legiferare sulla fine della vita, che non hanno mai esercitato: la giurisprudenza costituzionale è costante nel richiedere una lesione della competenza “in concreto” affinché possa essere ammissibile il conflitto di attribuzione. Tale lesione non può ritenersi sussistere in un caso come il presente, nel quale per rimuovere l'effetto ritenuto invasivo il parlamento potrebbe semplicemente legiferare, colmando così esso stesso la lacuna.
In secondo luogo, inammissibilità della censura perché si denunciano “errores in iudicando”, ovvero il “cattivo uso” del potere giudiziario. Se accolta, trasformerebbe la Corte Costituzionale in un ulteriore grado di giudizio, attivabile ogni qualvolta il Parlamento non “gradisca” una interpretazione giudiziaria.
Ma c’è di più. Si tratta di un atto che disvela la radicale incomprensione (per non dire la negazione), da parte di questa maggioranza, per la forma di Stato in cui viviamo, quella della democrazia costituzionale. Che si traduce nella nostalgia giacobina per lo Stato legislativo, di cui gli interventi in aula e la stessa delibera di ricorrere sono impregnati. Quello che si vuole “restaurare”, come hanno messo in luce al Senato i relatori dell’opposizione, è lo Stato legislativo basato sulla centralità della legge, fonte suprema del diritto, rispetto alla quale i giudici altro non sono che “bouches de la loi”, chiamati ad applicarla meccanicamente attraverso i meccanismi del sillogismo giudiziario.
Si chiede alla Corte Costituzionale di mettere in atto una sorta di référé legislatif sul modello della costituzione francese del 1791, che implicava, a tutela della legge, il ricorso al Tribunal de Cassation «établi auprès du Corps législatif» per l’annullamento delle sentenze, proprio per impedire l’interpretazione della legge e per assicurare il prevalere della volontà del legislatore su quella dei giudici.
Questa è la separazione dei poteri che si vuole garantire, una separazione dei poteri estranea allo Stato costituzionale in cui viviamo, nel quale al vertice dell'ordinamento non si trova la legge, ma la costituzione e il patrimonio di diritti che essa garantisce ai singoli: una “dotazione di diritti” originaria, indipendente e protetta nei confronti della legge. Nello Stato costituzionale il ruolo del giudice, che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o no, non è quello di mero applicatore della legge: egli è chiamato a valutarne la costituzionalità e a dettare la regola del caso concreto, attraverso le tecniche del bilanciamento e l’applicazione diretta dei principi costituzionali. E ciò è tanto più vero quando, come nel caso che qui ci interessa, una legge approvata dal Parlamento non ci sia. Di fronte a questa lacuna, che chiamerei piuttosto “omissione del legislatore”, al fine di garantire i diritti non ci sono che due soluzioni: l’applicazione diretta dei principi costituzionali, con effetti inter partes, nel caso concreto, da parte dei giudici, oppure l’intervento, erga omnes, in funzione di supplenza del legislatore, da parte della Corte Costituzionale.
È stata la Corte stessa, con un orientamento costante nella sua giurisprudenza, ad incoraggiare l'attivismo interpretativo dei giudici, allo scopo, assai chiaro, di preservare la sfera del legislatore. L’alternativa, infatti, una sentenza additiva della Corte Costituzionale con conseguenze erga omnes e vincolante anche per il legislatore (tranne che per quello costituzionale) sarebbe assai più invasiva della pronuncia di un giudice comune, che resta circoscritta alle parti e lascia spazio a un futuro intervento legislativo ordinario.
Leggiamo correttamente, e non stravolgendola come è stato fatto dalla maggioranza nel corso dei lavori parlamentari la sentenza n. 347 del 1998 sulla fecondazione assistita. In assenza di una norma di legge, la Corte dichiarò inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, che le chiedeva una sentenza additiva, le chiedeva di “farsi legislatore”, affermando che «L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali».
Pertanto, invece di sollevare conflitti fasulli a meri scopi propagandistici contro un giudice (e che giudice! È la nostra Corte di Cassazione) che si è limitato a svolgere il suo ruolo costituzionale (garantire i diritti applicando i principi nel caso concreto), sarebbe invece bene che il Parlamento si interrogasse sulle ragioni del suo silenzio.
È davvero il legislatore intenzionato, sulle questioni eticamente sensibili, a tacere? A lasciare al potere giudiziario, sotto la pressione inarrestabile dei casi, la soluzione? Con i rischi in ciò insiti, non solo per il principio democratico, ma anche per quello di uguaglianza, dato che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianze. Oppure, anche nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i principi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes, smentendo in tal modo chi lo vuole votato ad una inevitabile marginalizzazione? Non è attaccando il potere giudiziario, ma riprendendo il proprio ruolo istituzionale, che il Parlamento potrà difendere la sua potestà legislativa.
Come può Eluana dividere uno Stato?
di Tania Groppi
Il drammatico caso della giovane Eluana non divide soltanto le coscienze (e i gruppi parlamentari). Ma anche i poteri dello Stato. E costituisce l’ennesima occasione per un attacco alla magistratura.
Per la prima volta nella storia della Repubblica, il Parlamento ha deciso di sollevare un conflitto tra poteri per difendere la propria sfera legislativa, ritenuta invasa dalla sentenza con cui la Corte di Cassazione (e poi, di conseguenza, la Corte d’Appello di Milano) ha ritenuto legittimo sospendere i trattamenti che permettono di mantenere Eluana Englaro artificialmente in vita.
La maggioranza parlamentare, con un colpo di fantasia degno di un prestigiatore, di fronte alla mancanza di una legge sulla fine della vita, anziché procedere speditamente ad approvarla (riprendendo il lavoro già svolto nelle precedenti legislature in materia di testamento biologico), ha deciso invece di attaccare il potere giudiziario, nella specie la sua massima e più autorevole espressione, la Corte di Cassazione. Criticando i contenuti della sentenza dell’ottobre 2007 (definita “frettolosa”) ma soprattutto accusandola di avere un contenuto sostanzialmente legislativo. La Corte di Cassazione si sarebbe trasformata indebitamente da interprete del diritto in creatore del diritto, si sarebbe fatta legislatore, violando il principio della separazione dei poteri.
La questione viene quindi sottoposta alla Corte Costituzionale, che dovrà decidere nei prossimi mesi. Una nuova tappa in una lunga e drammatica vicenda umana e giuridica.
Una tappa peraltro anche di un’altra ormai annosa storia, che travaglia la nostra democrazia ben più di quanto avvenga in altri paesi. Si è di fronte, infatti, all’ennesimo tentativo di piegare le ragioni del diritto a quelle della lotta politica, attraverso l’utilizzazione impropria di uno strumento giuridico, il conflitto di attribuzione, al fine di affermare una concezione del diritto dei rapporti tra i poteri alternativa a quella prevista dalla nostra Costituzione.
Sul piano strettamente giuridico, infatti, i precedenti della Corte Costituzionale portano dritti alla manifesta inammissibilità del conflitto, in camera di consiglio e con ordinanza, già in sede di prima delibazione.
Basta richiamare due aspetti. Prima di tutto, la carenza di interesse a ricorrere. Le Camere lamentano l’invasione di una competenza, quella a legiferare sulla fine della vita, che non hanno mai esercitato: la giurisprudenza costituzionale è costante nel richiedere una lesione della competenza “in concreto” affinché possa essere ammissibile il conflitto di attribuzione. Tale lesione non può ritenersi sussistere in un caso come il presente, nel quale per rimuovere l'effetto ritenuto invasivo il parlamento potrebbe semplicemente legiferare, colmando così esso stesso la lacuna.
In secondo luogo, inammissibilità della censura perché si denunciano “errores in iudicando”, ovvero il “cattivo uso” del potere giudiziario. Se accolta, trasformerebbe la Corte Costituzionale in un ulteriore grado di giudizio, attivabile ogni qualvolta il Parlamento non “gradisca” una interpretazione giudiziaria.
Ma c’è di più. Si tratta di un atto che disvela la radicale incomprensione (per non dire la negazione), da parte di questa maggioranza, per la forma di Stato in cui viviamo, quella della democrazia costituzionale. Che si traduce nella nostalgia giacobina per lo Stato legislativo, di cui gli interventi in aula e la stessa delibera di ricorrere sono impregnati. Quello che si vuole “restaurare”, come hanno messo in luce al Senato i relatori dell’opposizione, è lo Stato legislativo basato sulla centralità della legge, fonte suprema del diritto, rispetto alla quale i giudici altro non sono che “bouches de la loi”, chiamati ad applicarla meccanicamente attraverso i meccanismi del sillogismo giudiziario.
Si chiede alla Corte Costituzionale di mettere in atto una sorta di référé legislatif sul modello della costituzione francese del 1791, che implicava, a tutela della legge, il ricorso al Tribunal de Cassation «établi auprès du Corps législatif» per l’annullamento delle sentenze, proprio per impedire l’interpretazione della legge e per assicurare il prevalere della volontà del legislatore su quella dei giudici.
Questa è la separazione dei poteri che si vuole garantire, una separazione dei poteri estranea allo Stato costituzionale in cui viviamo, nel quale al vertice dell'ordinamento non si trova la legge, ma la costituzione e il patrimonio di diritti che essa garantisce ai singoli: una “dotazione di diritti” originaria, indipendente e protetta nei confronti della legge. Nello Stato costituzionale il ruolo del giudice, che lo vogliamo o no, che ne siamo consapevoli o no, non è quello di mero applicatore della legge: egli è chiamato a valutarne la costituzionalità e a dettare la regola del caso concreto, attraverso le tecniche del bilanciamento e l’applicazione diretta dei principi costituzionali. E ciò è tanto più vero quando, come nel caso che qui ci interessa, una legge approvata dal Parlamento non ci sia. Di fronte a questa lacuna, che chiamerei piuttosto “omissione del legislatore”, al fine di garantire i diritti non ci sono che due soluzioni: l’applicazione diretta dei principi costituzionali, con effetti inter partes, nel caso concreto, da parte dei giudici, oppure l’intervento, erga omnes, in funzione di supplenza del legislatore, da parte della Corte Costituzionale.
È stata la Corte stessa, con un orientamento costante nella sua giurisprudenza, ad incoraggiare l'attivismo interpretativo dei giudici, allo scopo, assai chiaro, di preservare la sfera del legislatore. L’alternativa, infatti, una sentenza additiva della Corte Costituzionale con conseguenze erga omnes e vincolante anche per il legislatore (tranne che per quello costituzionale) sarebbe assai più invasiva della pronuncia di un giudice comune, che resta circoscritta alle parti e lascia spazio a un futuro intervento legislativo ordinario.
Leggiamo correttamente, e non stravolgendola come è stato fatto dalla maggioranza nel corso dei lavori parlamentari la sentenza n. 347 del 1998 sulla fecondazione assistita. In assenza di una norma di legge, la Corte dichiarò inammissibile la questione sollevata dal Tribunale di Napoli, che le chiedeva una sentenza additiva, le chiedeva di “farsi legislatore”, affermando che «L’individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, appartiene primariamente alla valutazione del legislatore. Tuttavia, nell’attuale situazione di carenza legislativa, spetta al giudice ricercare nel complessivo sistema normativo l’interpretazione idonea ad assicurare la protezione degli anzidetti beni costituzionali».
Pertanto, invece di sollevare conflitti fasulli a meri scopi propagandistici contro un giudice (e che giudice! È la nostra Corte di Cassazione) che si è limitato a svolgere il suo ruolo costituzionale (garantire i diritti applicando i principi nel caso concreto), sarebbe invece bene che il Parlamento si interrogasse sulle ragioni del suo silenzio.
È davvero il legislatore intenzionato, sulle questioni eticamente sensibili, a tacere? A lasciare al potere giudiziario, sotto la pressione inarrestabile dei casi, la soluzione? Con i rischi in ciò insiti, non solo per il principio democratico, ma anche per quello di uguaglianza, dato che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianze. Oppure, anche nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i principi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes, smentendo in tal modo chi lo vuole votato ad una inevitabile marginalizzazione? Non è attaccando il potere giudiziario, ma riprendendo il proprio ruolo istituzionale, che il Parlamento potrà difendere la sua potestà legislativa.
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