l’Unità 30.8.08
Diritto di morire? No, di lasciarsi morire
La sentenza della Corte di Cassazione e il rischio del medico-divinità
di Vittorio Angiolini
Eluana avrebbe già smesso di vivere senza i trattamenti imposti da altri, azione invasiva della sfera personale
NEL FIUME di parole, in cui è sommerso il caso di Eluana Englaro, si è andata perdendo una distinzione che è invece importante. Si è detto fino alla noia, come se questo fosse risolutivo, che non c'è il «diritto di morire», che il diritto alla vita è indisponibile, non rinunciabile e non può essere ceduto ad altri. Il che, per la verità, è stato ricordato anche nella sentenza della Cassazione su Eluana, che pure è stata attaccata, da più parti, come pericolosa «apertura» verso l'eutanasia. La Corte italiana ha ricordato espressamente che non c'è il diritto di procurarsi la morte né il diritto di farsela procurare da altri.
E nello stesso senso si è a suo tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell'uomo, rigettando la richiesta di un «suicidio assistito». Che il diritto alla vita sia considerato indisponibile in questa accezione anche in Italia non c'è dubbio: basterebbe pensare alla repressione penale dell'omicidio del consenziente. Che non si abbia «diritto di morire» significa però, appunto, soltanto che sono legittime contromisure per scongiurare che a porre fine alla vita sia la mano dell'uomo con azioni o anche semplici omissioni di comportamenti dichiarati obbligatori o doverosi. Il «diritto di morire», così concepito, non ha tuttavia con la vicenda Englaro nulla a che vedere. Eluana, dopo l'incidente che l'ha colpita nel 1992, è sopravvissuta grazie a pratiche rianimatorie e solo per la nutrizione artificiale impartita dalla struttura sanitaria in cui si trova ha dovuto prolungare per lunghi 16 anni una vita puramente biologica, priva di ogni esperienza cognitiva ed emotiva. È pacifico che Eluana cesserebbe ed anzi avrebbe già cessato di vivere se i trattamenti imposti da altre persone non avessero continuato ad allontanarne la morte. Il tema del caso Englaro non è dunque il «diritto di morire», ma solo quello del «diritto di lasciarsi morire», che è tema assai differente. Una cosa è che l'uomo uccida un altro uomo, cosa differente è che smetta di prolungarne indefinitamente la vita con accorgimenti tecnico-scientifici. Se non si tiene conto di questo, non si comprende la decisione della Cassazione sul caso Englaro. La questione non è quella di distinguere tra eutanasia attiva o passiva. La questione è, invece, se il medico o qualunque persona possa vedersi riconosciuto il potere di far vivere un altro ad oltranza e senza alcun limite grazie ad un'azione invasiva della sfera personale. Normalmente, il problema è risolto in base al principio costituzionale per cui chiunque può rifiutare ingerenze nella propria persona. Certo, il caso di Eluana Englaro è particolare, perché ella oggi non può più né consentire né dissentire da quello che altri facciano del suo corpo. Ma ciò, come ha osservato la Cassazione, non è affatto una buona ragione per lasciare Eluana priva di tutela riguardo alle intromissioni altrui nella sua sfera personale. A differenza del «diritto di morire», che in Italia e in grande parte dell'Europa non c'è, il «diritto di lasciarsi morire» è in definitiva essenziale perché nessuno possa impossessarsi del vivere altrui. Soprattutto chi del tutto legittimamente collega l'indisponibilità del diritto alla vita all'essere il vivere un dono di Dio, dovrebbe attentamente riflettere su questo aspetto: quando il medico pretendesse di essere sciolto da ogni vincolo nel far proseguire la vita altrui, all'uopo liberamente utilizzando tutto quanto la scienza e la tecnica permettono, in situazioni davvero disperate come quella di Eluana, il medico stesso potrebbe tramutarsi in una sorta di divinità, padrona di manovrare il residuo vivere del suo paziente.
* Ordinario di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Milano
Diritto di morire? No, di lasciarsi morire
La sentenza della Corte di Cassazione e il rischio del medico-divinità
di Vittorio Angiolini
Eluana avrebbe già smesso di vivere senza i trattamenti imposti da altri, azione invasiva della sfera personale
NEL FIUME di parole, in cui è sommerso il caso di Eluana Englaro, si è andata perdendo una distinzione che è invece importante. Si è detto fino alla noia, come se questo fosse risolutivo, che non c'è il «diritto di morire», che il diritto alla vita è indisponibile, non rinunciabile e non può essere ceduto ad altri. Il che, per la verità, è stato ricordato anche nella sentenza della Cassazione su Eluana, che pure è stata attaccata, da più parti, come pericolosa «apertura» verso l'eutanasia. La Corte italiana ha ricordato espressamente che non c'è il diritto di procurarsi la morte né il diritto di farsela procurare da altri.
E nello stesso senso si è a suo tempo pronunciata la Corte europea dei diritti dell'uomo, rigettando la richiesta di un «suicidio assistito». Che il diritto alla vita sia considerato indisponibile in questa accezione anche in Italia non c'è dubbio: basterebbe pensare alla repressione penale dell'omicidio del consenziente. Che non si abbia «diritto di morire» significa però, appunto, soltanto che sono legittime contromisure per scongiurare che a porre fine alla vita sia la mano dell'uomo con azioni o anche semplici omissioni di comportamenti dichiarati obbligatori o doverosi. Il «diritto di morire», così concepito, non ha tuttavia con la vicenda Englaro nulla a che vedere. Eluana, dopo l'incidente che l'ha colpita nel 1992, è sopravvissuta grazie a pratiche rianimatorie e solo per la nutrizione artificiale impartita dalla struttura sanitaria in cui si trova ha dovuto prolungare per lunghi 16 anni una vita puramente biologica, priva di ogni esperienza cognitiva ed emotiva. È pacifico che Eluana cesserebbe ed anzi avrebbe già cessato di vivere se i trattamenti imposti da altre persone non avessero continuato ad allontanarne la morte. Il tema del caso Englaro non è dunque il «diritto di morire», ma solo quello del «diritto di lasciarsi morire», che è tema assai differente. Una cosa è che l'uomo uccida un altro uomo, cosa differente è che smetta di prolungarne indefinitamente la vita con accorgimenti tecnico-scientifici. Se non si tiene conto di questo, non si comprende la decisione della Cassazione sul caso Englaro. La questione non è quella di distinguere tra eutanasia attiva o passiva. La questione è, invece, se il medico o qualunque persona possa vedersi riconosciuto il potere di far vivere un altro ad oltranza e senza alcun limite grazie ad un'azione invasiva della sfera personale. Normalmente, il problema è risolto in base al principio costituzionale per cui chiunque può rifiutare ingerenze nella propria persona. Certo, il caso di Eluana Englaro è particolare, perché ella oggi non può più né consentire né dissentire da quello che altri facciano del suo corpo. Ma ciò, come ha osservato la Cassazione, non è affatto una buona ragione per lasciare Eluana priva di tutela riguardo alle intromissioni altrui nella sua sfera personale. A differenza del «diritto di morire», che in Italia e in grande parte dell'Europa non c'è, il «diritto di lasciarsi morire» è in definitiva essenziale perché nessuno possa impossessarsi del vivere altrui. Soprattutto chi del tutto legittimamente collega l'indisponibilità del diritto alla vita all'essere il vivere un dono di Dio, dovrebbe attentamente riflettere su questo aspetto: quando il medico pretendesse di essere sciolto da ogni vincolo nel far proseguire la vita altrui, all'uopo liberamente utilizzando tutto quanto la scienza e la tecnica permettono, in situazioni davvero disperate come quella di Eluana, il medico stesso potrebbe tramutarsi in una sorta di divinità, padrona di manovrare il residuo vivere del suo paziente.
* Ordinario di Diritto Costituzionale Università degli Studi di Milano
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