l’Unità 30.8.08
L’unica «certezza»: 16 anni senza segnali
L’irreversibilità come probabilità: criterio su cui funziona la pratica medica
di Carlo Alberto Defanti
Alcuni neurologi sostengono che sia impossibile dimostrare il non-ritorno dallo stato vegetativo: una risposta
LA PROCURA di Milano ha presentato un ricorso contro la sentenza della Corte di Appello che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione artificiale di Eluana adducendo che non vi è stato un «rigoroso apprezzamento clinico» convalidante l'irreversibilità dello stato vegetativo. Secondo il Sostituto Procuratore Maria Antonietta Pezza vi sarebbe incertezza «sul fatto che il paziente in stato vegetativo permanente sia del tutto privo di consapevolezza»; inoltre ella fa cenno ai recenti lavori di alcuni studiosi, fra cui Adrian M. Owen, da cui sembra emergere che in tali stati è possibile, mediante nuove tecniche di indagine come la Risonanza Magnetica funzionale, «dimostrare che possono residuare aspetti di percezione della parola, processi emozionali, comprensione del linguaggio». Non c'è dubbio che, nella decisione della Procura, abbia avuto un peso rilevante la lettera inviata alla stessa Procura da un gruppo di 25 neurologi in cui vengono citati i lavori di cui sopra e si asserisce in maniera generale l'impossibilità di formulare una prognosi attendibile di irreversibilità dello stato vegetativo.
Avendo avuto in cura Eluana in tutti questi anni ed avendo fornito due diverse certificazioni del suo stato, credo di dover intervenire. Ebbi modo di studiare il suo caso già nel 1996. Non rilevando in lei, malgrado una prolungata osservazione, alcun indizio di contatto con l'ambiente, conclusi per uno stato vegetativo permanente, formulai cioè una prognosi di irreversibilità attendendomi rigorosamente alle conclusioni di una importante Task Force statunitense che risalivano a due anni prima (1994) e che tuttora costituiscono le Linee Guida più autorevoli per la diagnosi/prognosi di stato vegetativo. In quel documento si afferma che la prognosi di irreversibilità può essere formulata già a partire da un anno dopo l'insulto traumatico, mentre nel caso di Eluana ne erano trascorsi già quattro (il trauma risaliva al 1992). A distanza di sei anni, nel 2002, ricoverai nuovamente Eluana, sottoponendola a nuovi esami, e raggiunsi la stessa conclusione. Infine circa un mese fa, pochi giorni dopo la sentenza, ho visitato nuovamente l'ammalata e non ho notato in lei alcun mutamento clinico. Gli anni trascorsi sono ben sedici. Ora, è del tutto pacifico tra gli specialisti che il criterio prognostico più forte di cui disponiamo è proprio il lasso di tempo trascorso dopo l'evento traumatico in completa assenza di indizi di contatto con l'ambiente.
Mi si può obiettare che la certezza assoluta della prognosi non esiste neppure dopo tutti questi anni e su ciò potrei anche concordare, ma solo a condizione che si tenga presente che nessuna certezza è raggiungibile in medicina. Nella pratica medica, «certezza» significa «altissima probabilità» ed è su basi probabilistiche che noi medici prendiamo quotidianamente le decisioni. Ad esempio, non esiste ad oggi nessuno studio che dimostri in modo inequivocabile l'irreversibilità della morte cerebrale, e ciò malgrado questa diagnosi viene posta ogni giorno in decine di casi e ne conseguono decisioni fondamentali come il prelievo di organi e la cessazione delle cure intensive. A questo punto mi domando perché non si voglia da parte dei colleghi mettere in questione la stessa diagnosi/prognosi di morte cerebrale.
L'intervento dei colleghi neurologi, quindi, ha avuto un carattere strumentale e ideologico: esso ha teso a minare la base scientifica della sentenza e a scongiurarne non solo l'applicazione nel caso in oggetto, ma soprattutto la sua possibile estensione ai molti casi simili che ci sono nel nostro paese.
* Primario neurologo emerito Ospedale Niguarda, Milano; Consulta di Bioetica
L’unica «certezza»: 16 anni senza segnali
L’irreversibilità come probabilità: criterio su cui funziona la pratica medica
di Carlo Alberto Defanti
Alcuni neurologi sostengono che sia impossibile dimostrare il non-ritorno dallo stato vegetativo: una risposta
LA PROCURA di Milano ha presentato un ricorso contro la sentenza della Corte di Appello che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione artificiale di Eluana adducendo che non vi è stato un «rigoroso apprezzamento clinico» convalidante l'irreversibilità dello stato vegetativo. Secondo il Sostituto Procuratore Maria Antonietta Pezza vi sarebbe incertezza «sul fatto che il paziente in stato vegetativo permanente sia del tutto privo di consapevolezza»; inoltre ella fa cenno ai recenti lavori di alcuni studiosi, fra cui Adrian M. Owen, da cui sembra emergere che in tali stati è possibile, mediante nuove tecniche di indagine come la Risonanza Magnetica funzionale, «dimostrare che possono residuare aspetti di percezione della parola, processi emozionali, comprensione del linguaggio». Non c'è dubbio che, nella decisione della Procura, abbia avuto un peso rilevante la lettera inviata alla stessa Procura da un gruppo di 25 neurologi in cui vengono citati i lavori di cui sopra e si asserisce in maniera generale l'impossibilità di formulare una prognosi attendibile di irreversibilità dello stato vegetativo.
Avendo avuto in cura Eluana in tutti questi anni ed avendo fornito due diverse certificazioni del suo stato, credo di dover intervenire. Ebbi modo di studiare il suo caso già nel 1996. Non rilevando in lei, malgrado una prolungata osservazione, alcun indizio di contatto con l'ambiente, conclusi per uno stato vegetativo permanente, formulai cioè una prognosi di irreversibilità attendendomi rigorosamente alle conclusioni di una importante Task Force statunitense che risalivano a due anni prima (1994) e che tuttora costituiscono le Linee Guida più autorevoli per la diagnosi/prognosi di stato vegetativo. In quel documento si afferma che la prognosi di irreversibilità può essere formulata già a partire da un anno dopo l'insulto traumatico, mentre nel caso di Eluana ne erano trascorsi già quattro (il trauma risaliva al 1992). A distanza di sei anni, nel 2002, ricoverai nuovamente Eluana, sottoponendola a nuovi esami, e raggiunsi la stessa conclusione. Infine circa un mese fa, pochi giorni dopo la sentenza, ho visitato nuovamente l'ammalata e non ho notato in lei alcun mutamento clinico. Gli anni trascorsi sono ben sedici. Ora, è del tutto pacifico tra gli specialisti che il criterio prognostico più forte di cui disponiamo è proprio il lasso di tempo trascorso dopo l'evento traumatico in completa assenza di indizi di contatto con l'ambiente.
Mi si può obiettare che la certezza assoluta della prognosi non esiste neppure dopo tutti questi anni e su ciò potrei anche concordare, ma solo a condizione che si tenga presente che nessuna certezza è raggiungibile in medicina. Nella pratica medica, «certezza» significa «altissima probabilità» ed è su basi probabilistiche che noi medici prendiamo quotidianamente le decisioni. Ad esempio, non esiste ad oggi nessuno studio che dimostri in modo inequivocabile l'irreversibilità della morte cerebrale, e ciò malgrado questa diagnosi viene posta ogni giorno in decine di casi e ne conseguono decisioni fondamentali come il prelievo di organi e la cessazione delle cure intensive. A questo punto mi domando perché non si voglia da parte dei colleghi mettere in questione la stessa diagnosi/prognosi di morte cerebrale.
L'intervento dei colleghi neurologi, quindi, ha avuto un carattere strumentale e ideologico: esso ha teso a minare la base scientifica della sentenza e a scongiurarne non solo l'applicazione nel caso in oggetto, ma soprattutto la sua possibile estensione ai molti casi simili che ci sono nel nostro paese.
* Primario neurologo emerito Ospedale Niguarda, Milano; Consulta di Bioetica
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