sabato 4 luglio 2009

Una legge per le terapie del dolore

il Riformista 4.7.09
Intervista con Ignazio Marino: Niente sofferenze inutili, impariamo dagli Stati Uniti
Una legge per le terapie del dolore

Ignazio Marino non è solo il potenziale terzo "incomodo" nella sfida a due per la segreteria nazionale del Partito democratico. Il senatore, chirurgo, specializzato nella terapia dei trapianti, conosce a fondo il sistema sanitario degli Stati Uniti, dove ha svolto per quasi diciotto anni la sua professione. Nel 1999 è tornato in Italia, per dedicarsi alla fondazione di un centro trapianti a Palermo. Nel 1992 era stato nominato Direttore associato del National Liver Transplant Center del Veterans Affairs Medical Center di Pittsburgh, l'unico dipartimento per trapianti d'organo appartenente all'Amministrazione statunitense. In questo Paese ha perso la vita il 25 giugno Michael Jackson: il cantante era solito combattere il dolore, sia fisico che psichico, con dosi massicce di farmaci.
Professor Marino che cos'è il dolore secondo lei che è medico?
Il dolore ha una componente fisica e una psicologica. Spesso, però, queste due componenti si mischiano tra loro e la componente psicologica influenza quella fisica. Me ne rendo conto essendo un medico specializzato in trapianti. Basta pensare a quello del fegato, che prevede una fase post operatoria molto travagliata, dove il dolore all'addome assume una parte centrale. Ci sono casi in cui il dolore è minimo. Altri in cui è esacerbante e spesso psicologico. È qui dovere del medico parlare con il paziente, spiegando i motivi di questo dolore.
Quali sono le differenze di trattamento del dolore tra l'Italia e gli Stati Uniti?
L'approccio è diametralmente opposto. Negli Stati Uniti la cura del dolore assume un aspetto fondamentale, quasi essenziale, nella cura del paziente, il quale si aspetta di non provare alcun dolore ed è impegno dei medici non fargliene percepire alcuno.

«Abbiamo una cultura totalmente diversa da quella degli Stati Uniti, lì il paziente si aspetta di non provare mai la sofferenza».
Perché secondo lei?
Io credo si tratti di una questione prettamente culturale. L'approccio negli Stati Uniti è di tipo calvinista, dove non si accetta che una persona debba soffrire. L'approccio cattolico invece lascia un margine di tollerabilità del dolore. Non sto facendo un ragionamento di tipo filosofico o religioso, credo sia una differenza intrinseca interna alle due culture.
In termini pratici come si sviluppa questa differenza?
In America, la prima cosa che un medico fa, accogliendo un paziente che soffre, è somministrargli spesso antidolorifici a base di oppioidi per sedare il dolore. In questo modo, può anche succedere di ritrovarci di fronte a casi di addiction: è un atteggiamento che ha il rischio di provocare dipendenza. Ho seguito personalmente il caso di una donna che dopo un trapianto di fegato, perfettamente guarita e madre di due bambini, girava per ospedali mostrando il taglio all'addome semplicemente per ricevere oppioidi. Il dolore non c'èra più, ma era diventata dipendente.
E in Italia?
Nel nostro Paese avviene esattamente l'opposto. Si fa meno uso di oppioidi e succede che ci siano centinaia di persone che non fanno uso di farmaci appropriati o che continuano a soffrire inutilmente. Tra poco entrerà in vigore la liberalizzazione delle prescrizioni di farmaci per il dolore, da assumere per via orale. Ho cercato di portare avanti questa legge nella precedente legislatura. Poi il governo Prodi è caduto, ma l'attuale ministro Fazio ha comunque deciso di approvarla, con mia grande soddisfazione.
Non c'è il rischio che con la liberalizzazione dei farmaci possano esserci pure in Italia casi di addiction?
Assolutamente no, deve essere chiaro. Siamo in un Paese completamente diverso dagli Stati Uniti. Siamo all'estremo opposto nel modo di usare gli antidolorifici a base di oppioidi.
In Italia i medici specializzati si lamentano di un fatto: a differenza di altri Paesi non c'è differenza tra dolore cronico e cure palliative?
Il motivo è sempre da ricercare nella nostra cultura. Capita ad esempio nel leggere il messaggio che arriva dall'uso della morfina. Nel nostro Paese c'è ancora la convinzione che nel momento in cui si somministra morfina non ci siano più speranze di vita. In realtà, l'uso di questi farmaci può essere molto utile nella cura del dolore cronico.
C'è bisogno di una legge sulle cure palliative?
In Italia evidentemente la vita ha una qualità diversa che in altri Paesi. Una legge in merito è stata dichiarata inammissibile. È invece stata approvata una legge sul testamento biologico che non rispetta l'autodeterminazione del paziente. La politica non può scrivere delle leggi che hanno a che fare con la medicina, la scienza e con i diritti costituzionali delle persone senza tenere conto di che cosa pensano i medici, perché sono loro che con questi temi hanno a che fare ogni giorno, nell'esercizio di una professione difficile e delicatissima.
Come bisogna intervenire?
È necessario ampliare della rete degli hospice, ossia le strutture che forniscono con umanità e tecnologia le cure palliative ai malati terminali.
Ora invece la situazione qual è?
Dei 120 hospice presenti nel nostro paese, ben 103 si trovano al Nord. La metà della popolazione dunque non può usufruire di cure che riducono la sofferenza nelle fasi finali della vita. È in gioco la dignità dell'individuo e il diritto di ciascuno di noi ad affrontare nel modo più sereno possibile il momento più imperscrutabile: quello del passaggio dalla vita alla morte. E sono convinto che si tratti di un tema su cui laici e credenti non possano non trovarsi d'accordo.

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