mercoledì 20 aprile 2011

«Deve decidere il paziente ma in Italia il consenso informato è una formalità»

l’Unità 9.4.11
Intervista a Ignazio Marino
«Deve decidere il paziente ma in Italia il consenso informato è una formalità»
di Jolanda Bufalini

Quando deve fermarsi Doctor House? Ignazio Marino, da presidente di commissione, non si pronuncia sul caso della sentenza di Cassazione ma è convinto che l’equilibrio fra medico e paziente si definisce in relazione a «ogni singola vita». Quando deve fermarsi il chirurgo? «È molto difficile dirlo, negli anni Novanta a Pittsburg avevamo raggiunto tali successi nei trapianti di fegato da immaginare di poter fare dei cluster transplantation, trapianti a grappolo, con l’asportazione contemporanea di più organi. Capimmo presto che era un errore, i pazienti morivano con sofferenze maggiori che se non li avessimo portati in sala operatoria. Stavamo stabilendo che la sperimentazione era fallita, quando si presentò da me un chirurgo italiano con un tumore al fegato e metastasi negli organi vicini. Io cercai di dissuaderlo, passai due ore con lui, ma lui spiegò che avrebbe voluto prolungare la vita sino a vedere realizzato il sogno della laurea del figlio. Mi telefonò quando il ragazzo si laureò e morì poco dopo». Per la sentenza di Cassazione non basta il consenso informato «Il consenso deve essere veramente informato, mentre in Italia spesso si tratta di una firma frettolosa messa pochi minuti prima dell’intervento. Non parlo di singoli casi, è una pratica diffusa e determinata dai ritmi aziendali organizzati in termini quantitativi e non di tempo da dedicare alla persona»
In Svizzera le parcelle comprendono il tempo di spiegazione al paziente. «Accade lo stesso a me, al Jefferson Medical College di Filadelfia. È un sistema organizzato sulle assicurazioni e, sul frontespizio della cartella, devo riempire un formulario che definisce se si tratta di una spiegazione ordinaria, complessa o estremamente complessa. Il fattore tempo è importante per costruire un rapporto equilibrato fra medico e paziente e, quello che sembra un costo in più, alla lunga, diventa una risorsa».
In che senso risorsa?
«Se prima di un trapianto ho cinque minuti per spiegare le cose, dirò al paziente “non si preoccupi, andrà tutto bene, fra un paio di giorni potrà mangiare... ”. Ma così, alla minima complicanza il paziente o la famiglia avranno motivo di rivalersi. Per spiegare tutte le possibili complicanze, però, ho bisogno di tre quarti d’ora. E senza il tempo, il rapporto medico paziente, quali che siano i progressi tecnologici, resta quello che era 5000 anni fa, ovvero c’è una persona che ha paura di fronte a un’altra a cui chiede conoscenza e che gli stia vicino». Eugenia Roccella teme che l’autodeterminazione renda squilibrato il rapporto medico-paziente.
«Io ritengo che in uno Stato laico, dopo la spiegazione più completa, chiara e semplice, la decisione spetti al paziente e non, come ritiene il sottosegretario Roccella a una maggioranza che ha vinto le elezioni.

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