l’Unità 30.4.09
La medicina sa come si combatte la sofferenza. La legge non ancora
a colloquio con Gian Domenico Borasio Professore Ordinario di Cure Palliative, Università di Monaco di Baviera, di Luca Landò
Il mio consiglio da medico? Emigrare il prima possibile. Lo so, è una provocazione, ma se questa sciagurata legge sul testamento biologico dovesse venire approvata nella sua forma attuale, chi volesse essere sicuro di poter morire in pace dovrebbe andar via dall’Italia».
Detto da uno che da anni vive in Germania fa un certo effetto, ma Gian Domenico Borasio, uno dei maggiori esperti di medicina palliativa al mondo, rientra nella categoria dei cervelli in fuga, di quegli scienziati che l’Italia prepara con cura e poi regala all’estero. In questo caso all’Università di Monaco di Baviera dove occupa la cattedra di Cure Palliative. Ha redatto il protocollo per interrompere l’idratazione e l’alimentazione di Eluana Englaro ed è presidente del comitato scientifico dell’Associazione «Per Eluana». Il ministero della Giustizia tedesco lo ha nominato membro ad personam della commissione che stabilisce i principi per una legge sul testamento biologico. Borasio è cattolico praticante e membro del consiglio scientifico dell’Accademia Cattolica della Baviera.
Perdoni, ma che c’entrano le cure palliative con le dichiarazioni anticipate di trattamento, il testamento biologico insomma?
«Esiste un nesso strettissimo tra le cure palliative e l’autodeterminazione del malato, recentemente ribadito da una risoluzione del Consiglio d’Europa che stabilisce: “Le Cure Palliative permettono alle persone con malattie gravi, forti dolori o grande disperazione di esercitare la loro autodeterminazione. L’approccio delle Cure Palliative (...) contribuisce direttamente all’asserzione dei diritti umani, civili e partecipativi fino alla morte dell’individuo”».
D’accordo, cosa sono allora le cure palliative?
«L’Organizzazione mondiale della sanità le definisce “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie inguaribili”. Già qui ci sono due concetti che differiscono dalla medicina classica: non si parla di curare o di prolungare la vita, ma di migliorare il più possibile la qualità di quella che resta. Inoltre, le cure palliative si occupano dei familiari nella stessa misura nella quale si occupano dei malati. Primo, perché una malattia grave è un problema per tutti i componenti della famiglia. Secondo, perché le nostre ricerche hanno dimostrato che i malati terminali cambiano radicalmente la scala dei loro valori: passano da una visione egoistica della vita ad una altruistica, e si preoccupano più per la loro famiglia che per se stessi. Migliorare le condizioni psicologiche dei loro cari, quindi, contribuisce direttamente a migliorare la qualità della vita di chi sta male. Ci sarebbe da riflettere sul perché uno debba aspettare di morire per scoprire i valori dell’altruismo...».
La qualità della vita è un concetto poco scientifico, non le pare?
«Al contrario: è uno dei concetti scientifici più studiati degli ultimi anni. È sicuramente un concetto soggettivo, come lo sono peraltro il dolore e la sofferenza. Ma è anche quello che ci spinge a stare, sempre, dalla parte del malato. La medicina palliativa deve fare il possibile per consentire al malato di sentirsi meglio, in tutti i sensi».
In che modo?
«Di nuovo l’Oms, testuale: “Attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza, per mezzo dell’identificazione precoce, della approfondita valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali”. Qui, per la prima volta, i problemi di tipo psicosociale e spirituale vengono messi sullo stesso piano di quelli fisici. Quale di queste aree sia più importante per la sua qualità di vita è il malato a dovercelo dire».
Non mi dirà che un medico si deve mettere nei panni di un prete?
«Il benessere spirituale è un concetto che prescinde dalla religione. In Germania, se chiede chi si considera religioso le risponderanno positivamente in quindici su cento; ma quando chiediamo ai nostri malati se si considerano “credenti, nel senso più ampio del termine” le risposte positive arrivano all’87%. Di fronte alla morte le domande di tipo esistenziale e spirituale affiorano spontaneamente. Se un malato mi chiede “Perché proprio a me?” non posso rispondergli: “Questo è meglio che lo chieda al cappellano”. Anche un medico deve avere il coraggio di confrontarsi con domande alle quali non esiste una risposta».
Qual è esattamente il compito del medico nelle cure palliative?
«Le cause di sofferenza nei malati terminali sono diverse: sintomi fisici, quali il dolore, la nausea, o la mancanza di fiato, ma anche ansia per la famiglia o questioni di tipo esistenziale. Metà del nostro lavoro concerne l’assistenza psicosociale e spirituale, l’altra metà le terapie mediche. Fra queste, la terapia del dolore occupa circa un terzo, e quindi un sesto del nostro impegno totale. Un buon palliativista riconosce la causa primaria della sofferenza che affligge la persona in quel momento e interviene di conseguenza. Ancora meglio è riuscire a prevenire la sofferenza quando ciò è possibile - il testamento biologico ne è un esempio».
In Italia è iniziata la discussione per una legge sulle cure palliative.
«Apprezzo lo spirito ma il testo è carente, in particolare per quel che riguarda la copertura finanziaria della rete di cure palliative sul territorio: 2,1 milioni di euro l’anno. Una somma risibile, con la quale si potrebbero curare solo 700 pazienti, ovvero lo 0,1% dei malati terminali in Italia. In Germania le cure palliative domiciliari ricevono 240 milioni di euro annui, 120 volte quelli ipotizzati in Italia».
Se dovesse scriverla lei questa legge, su cosa punterebbe?
«Al primo articolo metterei senz’altro l’introduzione delle cure palliative come materia d’esame obbligatoria in ogni facoltà di medicina. I medici devono saper curare tutti i malati, anche quelli gravi che più soffrono o stanno per morire. Mi chiedo quale altra materia possa essere più necessaria per un medico. Eppure non c’è. In Italia non esistono cattedre di cure palliative. In Germania, che dopo l’Inghilterra e l’Irlanda è uno dei Paesi più all’avanguardia in Europa, ce ne sono sei e altre tre sono in progetto. E ne stanno nascendo anche in Austria, Svizzera e Francia, dove le cure palliative sono state definite per legge priorità nazionale. In Italia no. E dire che questo consentirebbe ai medici di famiglia di svolgere la maggior parte del lavoro: perché di tutti i malati terminali, solo il 10-20% ha bisogno di un’assistenza specializzata. Il restante 80% necessita sì di cure palliative, ma a un livello che ogni medico di base preparato potrebbe dare. Non introdurre le cure palliative negli studi di medicina significa correre il rischio, altissimo, di trovarsi nelle mani di un medico incompetente ad alleviare le nostre sofferenze quando sarà il nostro turno. Non lo auguro a nessuno».
Secondo articolo?
«Riguarda quel 10-20% di malati che ha bisogno di cure palliative specializzate, per i quali anche un medico di base preparato non sarebbe più sufficiente. Anche questi pazienti, tranne i casi più gravi che però sono solo l’1-2%, potrebbero restare a casa se venissero adeguatamente seguiti. In Germania si sta realizzando su tutto il territorio una rete di cure palliative specializzate domiciliari. Si tratta di gruppi di otto persone - tre medici, quattro infermieri e un assistente sociale - che assistono a casa il malato e i suoi familiari. Ogni gruppo riesce a seguire ogni anno circa 250 malati terminali particolarmente gravi. Al secondo punto metterei proprio l’istituzione di una rete simile. Ovviamente con finanziamenti adeguati».
Terzo punto di questa ideale “legge Borasio”.
«Definirei con chiarezza che le cure palliative si devono occupare di tutti i malati terminali e non solo di quelli oncologici. Il testo in discussione alla Camera è focalizzato sui malati di cancro, ma solamente il 25% della popolazione muore di tumore, mentre il 70% muore di malattie croniche o degenerative di tipo prevalentemente internistico o neurologico. Non possiamo concentrare le cure palliative su un quarto dei malati e tralasciare tutti gli altri».
Torniamo alla domanda iniziale: che c’entrano le cure palliative con l’autodeterminazione nel fine vita?
«Se un malato soffre terribilmente a causa di sintomi non curati, non è in grado di prendere decisioni autonome. Riducendo la sofferenza, ogni tipo di sofferenza, consentiamo alle persone di decidere serenamente come affrontare l’ultima parte della propria vita. Morire è un fatto fisiologico, come il nascere».
C’è una bella differenza.
«Meno di quanto si pensi. Vi sono molti punti di contatto tra il venire al mondo e l’uscirne. Nella maggioranza dei casi, ambedue gli eventi avvengono nella maniera migliore se vengono disturbati il meno possibile dai medici. In Olanda, dove è diffusa la pratica di partorire in casa, la mortalità infantile è minore che in Italia. Nelle nascite, come nella morte, esiste poi una percentuale di casi dove l’intervento medico è necessario; e nelle nascite, come nella morte, ci sono casi, molto più rari, dove è necessaria la disponibilità di una struttura altamente specialistica, come i reparti di terapia intensiva neonatale o le unità specializzate di medicina palliativa».
Cosa ne pensa del rifiuto della nutrizione artificiale recentemente espresso da Paolo Ravasin e Paolo di Modica, malati di Sla?
«È un loro sacrosanto diritto. Inoltre, in fase terminale, la nutrizione e l’idratazione artificiali non solo non servono a niente, ma sono addirittura dannose. I fluidi iniettati per via endovenosa, non potendo più essere espulsi perché i reni smettono di funzionare molto prima della morte, si infiltrano nei tessuti e causano edema polmonare con conseguente soffocamento. È per questo che la Società Italiana di Cure Palliative, riferendosi al ddl Calabrò, ha scritto che “questo disegno di legge, è evidente, ci imporrebbe, in ambito palliativo, di attuare delle pratiche contrarie al bene dei pazienti”. Come è possibile che si continui a perseguire un disegno di legge rifiutato dagli specialisti e dalla stragrande maggioranza dei medici, che sarebbe causa diretta di inutili sofferenze in fase terminale e che darebbe ai sondini più diritti che ai malati? Io spero ancora, nonostante le evidenze, che alla fine prevarrà la ragione».
La medicina sa come si combatte la sofferenza. La legge non ancora
a colloquio con Gian Domenico Borasio Professore Ordinario di Cure Palliative, Università di Monaco di Baviera, di Luca Landò
Il mio consiglio da medico? Emigrare il prima possibile. Lo so, è una provocazione, ma se questa sciagurata legge sul testamento biologico dovesse venire approvata nella sua forma attuale, chi volesse essere sicuro di poter morire in pace dovrebbe andar via dall’Italia».
Detto da uno che da anni vive in Germania fa un certo effetto, ma Gian Domenico Borasio, uno dei maggiori esperti di medicina palliativa al mondo, rientra nella categoria dei cervelli in fuga, di quegli scienziati che l’Italia prepara con cura e poi regala all’estero. In questo caso all’Università di Monaco di Baviera dove occupa la cattedra di Cure Palliative. Ha redatto il protocollo per interrompere l’idratazione e l’alimentazione di Eluana Englaro ed è presidente del comitato scientifico dell’Associazione «Per Eluana». Il ministero della Giustizia tedesco lo ha nominato membro ad personam della commissione che stabilisce i principi per una legge sul testamento biologico. Borasio è cattolico praticante e membro del consiglio scientifico dell’Accademia Cattolica della Baviera.
Perdoni, ma che c’entrano le cure palliative con le dichiarazioni anticipate di trattamento, il testamento biologico insomma?
«Esiste un nesso strettissimo tra le cure palliative e l’autodeterminazione del malato, recentemente ribadito da una risoluzione del Consiglio d’Europa che stabilisce: “Le Cure Palliative permettono alle persone con malattie gravi, forti dolori o grande disperazione di esercitare la loro autodeterminazione. L’approccio delle Cure Palliative (...) contribuisce direttamente all’asserzione dei diritti umani, civili e partecipativi fino alla morte dell’individuo”».
D’accordo, cosa sono allora le cure palliative?
«L’Organizzazione mondiale della sanità le definisce “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie inguaribili”. Già qui ci sono due concetti che differiscono dalla medicina classica: non si parla di curare o di prolungare la vita, ma di migliorare il più possibile la qualità di quella che resta. Inoltre, le cure palliative si occupano dei familiari nella stessa misura nella quale si occupano dei malati. Primo, perché una malattia grave è un problema per tutti i componenti della famiglia. Secondo, perché le nostre ricerche hanno dimostrato che i malati terminali cambiano radicalmente la scala dei loro valori: passano da una visione egoistica della vita ad una altruistica, e si preoccupano più per la loro famiglia che per se stessi. Migliorare le condizioni psicologiche dei loro cari, quindi, contribuisce direttamente a migliorare la qualità della vita di chi sta male. Ci sarebbe da riflettere sul perché uno debba aspettare di morire per scoprire i valori dell’altruismo...».
La qualità della vita è un concetto poco scientifico, non le pare?
«Al contrario: è uno dei concetti scientifici più studiati degli ultimi anni. È sicuramente un concetto soggettivo, come lo sono peraltro il dolore e la sofferenza. Ma è anche quello che ci spinge a stare, sempre, dalla parte del malato. La medicina palliativa deve fare il possibile per consentire al malato di sentirsi meglio, in tutti i sensi».
In che modo?
«Di nuovo l’Oms, testuale: “Attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza, per mezzo dell’identificazione precoce, della approfondita valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali”. Qui, per la prima volta, i problemi di tipo psicosociale e spirituale vengono messi sullo stesso piano di quelli fisici. Quale di queste aree sia più importante per la sua qualità di vita è il malato a dovercelo dire».
Non mi dirà che un medico si deve mettere nei panni di un prete?
«Il benessere spirituale è un concetto che prescinde dalla religione. In Germania, se chiede chi si considera religioso le risponderanno positivamente in quindici su cento; ma quando chiediamo ai nostri malati se si considerano “credenti, nel senso più ampio del termine” le risposte positive arrivano all’87%. Di fronte alla morte le domande di tipo esistenziale e spirituale affiorano spontaneamente. Se un malato mi chiede “Perché proprio a me?” non posso rispondergli: “Questo è meglio che lo chieda al cappellano”. Anche un medico deve avere il coraggio di confrontarsi con domande alle quali non esiste una risposta».
Qual è esattamente il compito del medico nelle cure palliative?
«Le cause di sofferenza nei malati terminali sono diverse: sintomi fisici, quali il dolore, la nausea, o la mancanza di fiato, ma anche ansia per la famiglia o questioni di tipo esistenziale. Metà del nostro lavoro concerne l’assistenza psicosociale e spirituale, l’altra metà le terapie mediche. Fra queste, la terapia del dolore occupa circa un terzo, e quindi un sesto del nostro impegno totale. Un buon palliativista riconosce la causa primaria della sofferenza che affligge la persona in quel momento e interviene di conseguenza. Ancora meglio è riuscire a prevenire la sofferenza quando ciò è possibile - il testamento biologico ne è un esempio».
In Italia è iniziata la discussione per una legge sulle cure palliative.
«Apprezzo lo spirito ma il testo è carente, in particolare per quel che riguarda la copertura finanziaria della rete di cure palliative sul territorio: 2,1 milioni di euro l’anno. Una somma risibile, con la quale si potrebbero curare solo 700 pazienti, ovvero lo 0,1% dei malati terminali in Italia. In Germania le cure palliative domiciliari ricevono 240 milioni di euro annui, 120 volte quelli ipotizzati in Italia».
Se dovesse scriverla lei questa legge, su cosa punterebbe?
«Al primo articolo metterei senz’altro l’introduzione delle cure palliative come materia d’esame obbligatoria in ogni facoltà di medicina. I medici devono saper curare tutti i malati, anche quelli gravi che più soffrono o stanno per morire. Mi chiedo quale altra materia possa essere più necessaria per un medico. Eppure non c’è. In Italia non esistono cattedre di cure palliative. In Germania, che dopo l’Inghilterra e l’Irlanda è uno dei Paesi più all’avanguardia in Europa, ce ne sono sei e altre tre sono in progetto. E ne stanno nascendo anche in Austria, Svizzera e Francia, dove le cure palliative sono state definite per legge priorità nazionale. In Italia no. E dire che questo consentirebbe ai medici di famiglia di svolgere la maggior parte del lavoro: perché di tutti i malati terminali, solo il 10-20% ha bisogno di un’assistenza specializzata. Il restante 80% necessita sì di cure palliative, ma a un livello che ogni medico di base preparato potrebbe dare. Non introdurre le cure palliative negli studi di medicina significa correre il rischio, altissimo, di trovarsi nelle mani di un medico incompetente ad alleviare le nostre sofferenze quando sarà il nostro turno. Non lo auguro a nessuno».
Secondo articolo?
«Riguarda quel 10-20% di malati che ha bisogno di cure palliative specializzate, per i quali anche un medico di base preparato non sarebbe più sufficiente. Anche questi pazienti, tranne i casi più gravi che però sono solo l’1-2%, potrebbero restare a casa se venissero adeguatamente seguiti. In Germania si sta realizzando su tutto il territorio una rete di cure palliative specializzate domiciliari. Si tratta di gruppi di otto persone - tre medici, quattro infermieri e un assistente sociale - che assistono a casa il malato e i suoi familiari. Ogni gruppo riesce a seguire ogni anno circa 250 malati terminali particolarmente gravi. Al secondo punto metterei proprio l’istituzione di una rete simile. Ovviamente con finanziamenti adeguati».
Terzo punto di questa ideale “legge Borasio”.
«Definirei con chiarezza che le cure palliative si devono occupare di tutti i malati terminali e non solo di quelli oncologici. Il testo in discussione alla Camera è focalizzato sui malati di cancro, ma solamente il 25% della popolazione muore di tumore, mentre il 70% muore di malattie croniche o degenerative di tipo prevalentemente internistico o neurologico. Non possiamo concentrare le cure palliative su un quarto dei malati e tralasciare tutti gli altri».
Torniamo alla domanda iniziale: che c’entrano le cure palliative con l’autodeterminazione nel fine vita?
«Se un malato soffre terribilmente a causa di sintomi non curati, non è in grado di prendere decisioni autonome. Riducendo la sofferenza, ogni tipo di sofferenza, consentiamo alle persone di decidere serenamente come affrontare l’ultima parte della propria vita. Morire è un fatto fisiologico, come il nascere».
C’è una bella differenza.
«Meno di quanto si pensi. Vi sono molti punti di contatto tra il venire al mondo e l’uscirne. Nella maggioranza dei casi, ambedue gli eventi avvengono nella maniera migliore se vengono disturbati il meno possibile dai medici. In Olanda, dove è diffusa la pratica di partorire in casa, la mortalità infantile è minore che in Italia. Nelle nascite, come nella morte, esiste poi una percentuale di casi dove l’intervento medico è necessario; e nelle nascite, come nella morte, ci sono casi, molto più rari, dove è necessaria la disponibilità di una struttura altamente specialistica, come i reparti di terapia intensiva neonatale o le unità specializzate di medicina palliativa».
Cosa ne pensa del rifiuto della nutrizione artificiale recentemente espresso da Paolo Ravasin e Paolo di Modica, malati di Sla?
«È un loro sacrosanto diritto. Inoltre, in fase terminale, la nutrizione e l’idratazione artificiali non solo non servono a niente, ma sono addirittura dannose. I fluidi iniettati per via endovenosa, non potendo più essere espulsi perché i reni smettono di funzionare molto prima della morte, si infiltrano nei tessuti e causano edema polmonare con conseguente soffocamento. È per questo che la Società Italiana di Cure Palliative, riferendosi al ddl Calabrò, ha scritto che “questo disegno di legge, è evidente, ci imporrebbe, in ambito palliativo, di attuare delle pratiche contrarie al bene dei pazienti”. Come è possibile che si continui a perseguire un disegno di legge rifiutato dagli specialisti e dalla stragrande maggioranza dei medici, che sarebbe causa diretta di inutili sofferenze in fase terminale e che darebbe ai sondini più diritti che ai malati? Io spero ancora, nonostante le evidenze, che alla fine prevarrà la ragione».
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