venerdì 15 maggio 2009

La scelta di Maria per la libertà della coscienza

La scelta di Maria per la libertà della coscienza

Terra del 14 maggio 2009, pag. 10

Simonetta Dazi* e Marco Cappato**

‘’Io ho la sclerosi multipla per ora va ancora benino, ma sento che ogni giorno perdo qualcosa del mio corpo e della mia autonomia . Ho 40 anni, sono sola e penso proprio che lo rimarrò. Arrivata al momento in cui la solitudine e la malattia avranno mangiato quello che ancora c'è, farò anche io la stessa scelta: per non pesare sul mio unico fratello, per non pesare su nessuno, non per vigliaccheria, ma per mantenere integra la mia dignità di persona, di essere umano’’.

Ecco la scelta di Maria, in uno stralcio di lettera pubblicata su Agenda Coscioni. Una voce che potrebbe essere quella delle circa tremila persone che hanno risposto all’invito – rivolto dalle associazioni Luca Coscioni e A buon diritto - di redigere un testamento biologico compilando un modulo prestampato per poter testimoniare le volontà individuali sui trattamenti di fine vita: migliaia di fogli sono arrivati via fax, via mail, per posta, a sottolineare la determinazione di tante persone di scegliere per se stesse, di decidere riguardo valori fondamentali della persona come il significato del diritto alla vita, la dignità dell’uomo, il diritto all’autodeterminazione. Forse una piccola testimonianza, è vero, se la si misura su scala nazionale, ma utile a mettere in evidenza quello scollamento dei cittadini da una politica che ormai, su molti temi, non incontra l’orientamento generale del Paese. Come ricostruito nella recente pubblicazione del partito radicale ‘’La peste italiana’’, esiste un Paese che sembra essere l’esatto contrario di quello che quotidianamente televisioni, giornali, media ci raccontano: ma le risposte dei cittadini spesso ci portano a fotografare l’altra Italia, molto lontana da quella morale cattolica che si pretende dominante.’’L’andamento di queste risposte, costante nel tempo, - si legge nella pubblicazione dei radicali - dimostra che la società italiana è, nei suoi valori e nei suoi orientamenti di fondo, niente affatto in sintonia con la Chiesa per quanto riguarda i diritti civili e le questioni cosiddette etiche e con i partiti sulle grandi scelte istituzionali e politiche. Al contrario, se una sintonia c’è e si mantiene intatta con il trascorrere del tempo, è proprio con coloro come i radicali che si oppongono a questa immagine artefatta della società italiana e sono per questo oscurati e messi a tacere’’.

Il caso più significativo è quello dei sondaggi sull’eutanasia:per la Chiesa un omicidio, per l’intera classe politica senza eccezioni, tema da non includere nell’agenda politica. Ma le risposte dei cittadini, sollecitati dai sondaggi in un ragguardevole lasso di tempo, portano alla luce, maggioranze favorevoli a un legge su questo tema.

Nonostante questa mistificazione mediatica nei confronti delle posizioni laiche, sulle scelte di fine vita non sono pochi gli italiani che non rinunciano a dare battaglia e a mettere in atto una resistenza attiva per vedere riconosciuti i propri diritti. Solo il mese scorso,infatti, a Roma l’Associazione Coscioni in poche settimane è riuscita a raccogliere le firme necessarie per una delibera comunale per istituire un registro dei testamenti biologici. E la raccolta firme promossa dall’associazione continua in tutta Italia per dare la possibilità a ciascuno e ovunque di redigere il testamento biologico, secondo principi di responsabilità e di libertà, come previsto dalla Carta Costituzionale, dal codice deontologico dei medici, dalla migliore giurisprudenza e dalle convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese (Convenzione di Oviedo, La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Inoltre l’Associazione sta raccogliendo firme per una petizione al Parlamento affinché sia fatta un’inchiesta sul fenomeno dell’eutanasia clandestina e il fine vita venga regolamentato attraverso norme rispettose della libera responsabile scelta individuale.

Si tratta di tentativi per colmare quel vuoto legislativo emerso con i casi Welby, Nuvoli, Englaro, Ravasin, e che il Parlamento non ha, a tutt’oggi, saputo affrontare adeguatamente con una legge condivisa e rispettosa delle diverse posizioni etiche esistenti. Il disegno di legge Calabrò, rimasto fermo alla Camera, rischia di peggiorare la situazione prevedendo paletti e divieti che oltre a non far rispettare il principio dell’autodeterminazione del paziente, non avrebbero potuto contrastare il fenomeno, costantemente in aumento, dell'eutanasia clandestina.

Simonetta Dezi, Associazione Coscioni e Marco Cappato, deputato europeo radicale



BOX SONDAGGI

Sondaggio SWG del 26 aprile 2002: favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia 46%, contrari 35%, interlocutori (in attesa di conoscere la soluzione legislativa) il 13% , incerti il 6%.

Sondaggio Eurispes del 31 gennaio 2003 (Rapporto Italia): favorevoli il 60%, contrari il 27. Nel rapporto Italia del 1987 i contrari erano invece il 40%, il 24,5% favorevole e il 20% solo in presenza di casi disperati

Sondaggio Vanity Fair del 23 febbraio 2005: il 50% favorevole per i malati terminali, il 37% contrario.

Sondaggio DOXA del 24 marzo 2005. Il 60% degli intervistati è favorevole alla legalizzazione: il 78% di essi l’ammette solo se richiesta dal paziente, il 73%.

Sondaggio SWG del 14 dicembre 2006 condotto fra gli elettori del centro sinistra: il 61% degli intervistati favorevole all’eutanasia, l’87% si dicono contrari alle pratiche mediche che tengono in vita i malati ad ogni costo, l’85% favorevole a una legge sul testamento biologico.

Sondaggio ISPO- Corriere della Sera del settembre 2006: il 58% ritiene opportuno legalizzare l’eutanasia, il 37% è contrario.

Sondaggio IPSOS, pubblicato da Vanity Fair nel dicembre 2008: il 57% non è d’accordo con la Chiesa che ha ribadito il suo NO a ogni ipotesi di interruzione della vita”

NOTE

* Associazione Coscioni
**Segretario Associazione Coscioni, europarlamentare radicale

sabato 9 maggio 2009

Quello che resta del testamento biologico

La Repubblica 9.5.09
Quello che resta del testamento biologico
risponde Corrado Augias

Gentilissimo Corrado Augias, torno sul tema alimentazione e idratazione su persone in stato vegetativo per ricordarle che nell'ultimo forum delle associazioni che si occupano di traumi cranici e gravi cerebrolesioni, San Pellegrino Terme, si è definito che nutrizione e idratazione artificiale sono «atti dovuti». Bisogna infatti considerare che questa operazione, nei casi di cui parliamo, viene fatta nella prima fase dopo l'evento, può essere transitoria, a volte integra un'alimentazione per bocca e comunque molti familiari nella fase cronica utilizzano alimenti naturali preparati e frullati da loro stessi. Se nella discussione in atto riuscissimo a superare la semplicistica contrapposizione tra laici e cattolici, tra destra e sinistra, se qualcuno deviasse l'indice del senatore Ignazio Marino dal tubo di alimentazione all'ambito socio-familiare del problema avremmo fatto, forse, tutti un passo avanti. È così difficile intercettare i reali bisogni delle persone che convivono con la malattia ed interrogarsi sulla vita di relazione di ognuno di noi? Non vorrei che le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento ci cogliessero nel vuoto pneumatico del nostro sé, isolato nella sterile roccaforte del proprio corpo. Vuoti, nel non voler riconoscere chi vive il problema.
Fulvio De Nigris Direttore Centro Studi Ricerca sul Coma Gli amici di Luca

C'è enorme differenza tra un «atto dovuto» e un atto garantito dal SSN, ma sul quale deve esserci il consenso informato del paziente. Alla definizione elaborata a San Pellegrino Terme si può infatti opporre la dichiarazione della Società italiana nutrizione artificiale e metabolismo e della sua omologa europea, la European Society for Clinical Nutrition and Metabolism. Entrambe, nelle linee guida consultabili sui rispettivi siti, parlano di «procedure terapeutiche mediante le quali è possibile soddisfare integralmente i fabbisogni nutrizionali di pazienti altrimenti non in grado di alimentarsi sufficientemente per la via naturale». Aggiungono: «Si tratta comunque di un trattamento medico a tutti gli effetti, tanto che prevede il consenso informato del malato o del suo delegato, secondo le norme del codice deontologico». Quanto all'importanza dell'ambito socio-familiare, il dottor De Nigris ha ragione a sottolinearne le carenze. Per dovere di cronaca ricordo però che il senatore Marino nella sua proposta sul Testamento Biologico aveva introdotto ben 13 articoli sull'importanza delle cure palliative, dell'assistenza ai disabili gravi ed alle loro famiglie (anche con strumenti come il pre-pensionamento di un genitore) e dell'assistenza qualificata ai pazienti inguaribili e/o terminali, attraverso il finanziamento di nuovi hospice. Nella legge poi approvata dal Senato di tutto questo non è rimasta una riga. Questo per la precisione.

giovedì 7 maggio 2009

Scrivetevi il testamento biologico

Scrivetevi il testamento biologico

La Stampa del 7 maggio 2009, pag. 1

Umberto Veronesi

Lo slittamento della discussione della legge sul Testamento biologico è stato un bene per il Paese e ringrazio questo giornale per averlo sottolineato ieri, in un momento in cui il dibattito sul tema più che rimandato appare abbandonato.

Non pensino i tanti italiani che credono nella lotta a favore dei diritti fondamentali della persona e del malato - fra cui in tutto il mondo evoluto rientra quello di rifiutare le cure - che chi, come me, ha tentato di portare questo obiettivo in Parlamento, vi abbia rinunciato a causa delle fiaccolate e delle polemiche. Né temano quelli che si sono apertamente dichiarati a favore di una legge che permetta di rifiutare la vita artificiale - la maggioranza secondo tutti i sondaggi - che le loro aspettative siano state disattese e dimenticate.

In realtà più ci si allontana dall’ondata emotiva scatenata dal caso di Eluana Englaro, maggiori sono le chances che abbiamo di pervenire a una legge equilibrata e lontana dalla logica dei provvedimenti «ad personam».

Uscire dall’ossessione delle foto di Eluana nello splendore della giovinezza, dalle accuse di assassinio lanciate a un padre che ha perso la sua unica figlia, dal furore, insomma, delle immagini e delle parole, è una condizione imprescindibile per una discussione lucida e pacata su un argomento, come la vita artificiale, che ha già in sé valenze emotive molto forti. Deve invece essere chiaro che il dibattito sul testamento biologico non verte sulla visione e i misteri della vita e della morte, ma sulla libertà di autodeterminazione della persona. E lì deve ritornare.

Un pubblico complimento va dunque fatto al Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini: ha percepito che troppa commozione e troppa ideologia è stata riversata in un testo di legge e ha chiesto di rimandarne l’approvazione. Del resto, la fretta è sempre una cattiva consigliera e nessuna decisione politica andrebbe mai presa sotto la pressione dell’urgenza o degli allarmi. Tanto più che nel caso del Biotestamento non c’è nessuna fretta. Se il Paese in questo momento non è pronto culturalmente ad affrontare il tema senza cadere nelle trappole ideologiche e scadere nelle contese partitiche, meglio aspettare per evitare un danno ai cittadini.

C’è chi ha iniziato a pensare «che cosa fare», in caso di un prolungamento artificiale della vita da parte della medicina tecnologica, molto prima che accadesse l’incidente a Eluana Englaro. Abbiamo atteso fino a oggi, abbiamo fatto ricerche a livello internazionale, abbiamo studiato molti casi di persone in stato vegetativo permanente, abbiamo analizzato quasi tutti i diversi disegni di legge e dunque non c’è motivo per buttare tutto all’aria, stringendo i tempi su un processo che ha richiesto molti anni e molto impegno di tante intelligenze. Sono stato in Italia uno dei promotori del movimento civile a favore del Testamento biologico; ho partecipato, insieme con alcuni dei maggiori esperti in merito, alla stesura di quattro libri; ho lanciato, attraverso la mia Fondazione, una campagna informativa e presentato in Senato un disegno di legge.

In virtù di queste esperienze ripeto che piuttosto che una cattiva legge è meglio non averne. Non esistono vincitori o vinti quando ci sono di mezzo i diritti di cittadini e malati. Questo non vuol dire sottrarsi al confronto in un dibattito che si è fortemente voluto, anzi direttamente provocato, ma ritornare all’essenza del problema: il diritto di decidere per sé, il diritto di rifiutare o accettare una vita artificiale, il diritto a vedere rispettate le proprie volontà, anche nel caso in cui non ci si potesse esprimere di persona. Il mio invito è quindi, per chi lo ritiene giusto, a scrivere il proprio testamento biologico anche in assenza di una legge specifica, nella certezza che le proprie volontà saranno tutelate dalla Costituzione che ha stabilito tali diritti per tutti gli italiani.

sabato 2 maggio 2009

La medicina sa come si combatte la sofferenza. La legge non ancora

l’Unità 30.4.09
La medicina sa come si combatte la sofferenza. La legge non ancora
a colloquio con Gian Domenico Borasio Professore Ordinario di Cure Palliative, Università di Monaco di Baviera, di Luca Landò

Il mio consiglio da medico? Emigrare il prima possibile. Lo so, è una provocazione, ma se questa sciagurata legge sul testamento biologico dovesse venire approvata nella sua forma attuale, chi volesse essere sicuro di poter morire in pace dovrebbe andar via dall’Italia».
Detto da uno che da anni vive in Germania fa un certo effetto, ma Gian Domenico Borasio, uno dei maggiori esperti di medicina palliativa al mondo, rientra nella categoria dei cervelli in fuga, di quegli scienziati che l’Italia prepara con cura e poi regala all’estero. In questo caso all’Università di Monaco di Baviera dove occupa la cattedra di Cure Palliative. Ha redatto il protocollo per interrompere l’idratazione e l’alimentazione di Eluana Englaro ed è presidente del comitato scientifico dell’Associazione «Per Eluana». Il ministero della Giustizia tedesco lo ha nominato membro ad personam della commissione che stabilisce i principi per una legge sul testamento biologico. Borasio è cattolico praticante e membro del consiglio scientifico dell’Accademia Cattolica della Baviera.
Perdoni, ma che c’entrano le cure palliative con le dichiarazioni anticipate di trattamento, il testamento biologico insomma?
«Esiste un nesso strettissimo tra le cure palliative e l’autodeterminazione del malato, recentemente ribadito da una risoluzione del Consiglio d’Europa che stabilisce: “Le Cure Palliative permettono alle persone con malattie gravi, forti dolori o grande disperazione di esercitare la loro autodeterminazione. L’approccio delle Cure Palliative (...) contribuisce direttamente all’asserzione dei diritti umani, civili e partecipativi fino alla morte dell’individuo”».
D’accordo, cosa sono allora le cure palliative?
«L’Organizzazione mondiale della sanità le definisce “un approccio che migliora la qualità della vita dei malati e delle famiglie che si confrontano con i problemi associati a malattie inguaribili”. Già qui ci sono due concetti che differiscono dalla medicina classica: non si parla di curare o di prolungare la vita, ma di migliorare il più possibile la qualità di quella che resta. Inoltre, le cure palliative si occupano dei familiari nella stessa misura nella quale si occupano dei malati. Primo, perché una malattia grave è un problema per tutti i componenti della famiglia. Secondo, perché le nostre ricerche hanno dimostrato che i malati terminali cambiano radicalmente la scala dei loro valori: passano da una visione egoistica della vita ad una altruistica, e si preoccupano più per la loro famiglia che per se stessi. Migliorare le condizioni psicologiche dei loro cari, quindi, contribuisce direttamente a migliorare la qualità della vita di chi sta male. Ci sarebbe da riflettere sul perché uno debba aspettare di morire per scoprire i valori dell’altruismo...».
La qualità della vita è un concetto poco scientifico, non le pare?
«Al contrario: è uno dei concetti scientifici più studiati degli ultimi anni. È sicuramente un concetto soggettivo, come lo sono peraltro il dolore e la sofferenza. Ma è anche quello che ci spinge a stare, sempre, dalla parte del malato. La medicina palliativa deve fare il possibile per consentire al malato di sentirsi meglio, in tutti i sensi».
In che modo?
«Di nuovo l’Oms, testuale: “Attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza, per mezzo dell’identificazione precoce, della approfondita valutazione e del trattamento del dolore e di altri problemi fisici, psicosociali e spirituali”. Qui, per la prima volta, i problemi di tipo psicosociale e spirituale vengono messi sullo stesso piano di quelli fisici. Quale di queste aree sia più importante per la sua qualità di vita è il malato a dovercelo dire».
Non mi dirà che un medico si deve mettere nei panni di un prete?
«Il benessere spirituale è un concetto che prescinde dalla religione. In Germania, se chiede chi si considera religioso le risponderanno positivamente in quindici su cento; ma quando chiediamo ai nostri malati se si considerano “credenti, nel senso più ampio del termine” le risposte positive arrivano all’87%. Di fronte alla morte le domande di tipo esistenziale e spirituale affiorano spontaneamente. Se un malato mi chiede “Perché proprio a me?” non posso rispondergli: “Questo è meglio che lo chieda al cappellano”. Anche un medico deve avere il coraggio di confrontarsi con domande alle quali non esiste una risposta».
Qual è esattamente il compito del medico nelle cure palliative?
«Le cause di sofferenza nei malati terminali sono diverse: sintomi fisici, quali il dolore, la nausea, o la mancanza di fiato, ma anche ansia per la famiglia o questioni di tipo esistenziale. Metà del nostro lavoro concerne l’assistenza psicosociale e spirituale, l’altra metà le terapie mediche. Fra queste, la terapia del dolore occupa circa un terzo, e quindi un sesto del nostro impegno totale. Un buon palliativista riconosce la causa primaria della sofferenza che affligge la persona in quel momento e interviene di conseguenza. Ancora meglio è riuscire a prevenire la sofferenza quando ciò è possibile - il testamento biologico ne è un esempio».
In Italia è iniziata la discussione per una legge sulle cure palliative.
«Apprezzo lo spirito ma il testo è carente, in particolare per quel che riguarda la copertura finanziaria della rete di cure palliative sul territorio: 2,1 milioni di euro l’anno. Una somma risibile, con la quale si potrebbero curare solo 700 pazienti, ovvero lo 0,1% dei malati terminali in Italia. In Germania le cure palliative domiciliari ricevono 240 milioni di euro annui, 120 volte quelli ipotizzati in Italia».
Se dovesse scriverla lei questa legge, su cosa punterebbe?
«Al primo articolo metterei senz’altro l’introduzione delle cure palliative come materia d’esame obbligatoria in ogni facoltà di medicina. I medici devono saper curare tutti i malati, anche quelli gravi che più soffrono o stanno per morire. Mi chiedo quale altra materia possa essere più necessaria per un medico. Eppure non c’è. In Italia non esistono cattedre di cure palliative. In Germania, che dopo l’Inghilterra e l’Irlanda è uno dei Paesi più all’avanguardia in Europa, ce ne sono sei e altre tre sono in progetto. E ne stanno nascendo anche in Austria, Svizzera e Francia, dove le cure palliative sono state definite per legge priorità nazionale. In Italia no. E dire che questo consentirebbe ai medici di famiglia di svolgere la maggior parte del lavoro: perché di tutti i malati terminali, solo il 10-20% ha bisogno di un’assistenza specializzata. Il restante 80% necessita sì di cure palliative, ma a un livello che ogni medico di base preparato potrebbe dare. Non introdurre le cure palliative negli studi di medicina significa correre il rischio, altissimo, di trovarsi nelle mani di un medico incompetente ad alleviare le nostre sofferenze quando sarà il nostro turno. Non lo auguro a nessuno».
Secondo articolo?
«Riguarda quel 10-20% di malati che ha bisogno di cure palliative specializzate, per i quali anche un medico di base preparato non sarebbe più sufficiente. Anche questi pazienti, tranne i casi più gravi che però sono solo l’1-2%, potrebbero restare a casa se venissero adeguatamente seguiti. In Germania si sta realizzando su tutto il territorio una rete di cure palliative specializzate domiciliari. Si tratta di gruppi di otto persone - tre medici, quattro infermieri e un assistente sociale - che assistono a casa il malato e i suoi familiari. Ogni gruppo riesce a seguire ogni anno circa 250 malati terminali particolarmente gravi. Al secondo punto metterei proprio l’istituzione di una rete simile. Ovviamente con finanziamenti adeguati».
Terzo punto di questa ideale “legge Borasio”.
«Definirei con chiarezza che le cure palliative si devono occupare di tutti i malati terminali e non solo di quelli oncologici. Il testo in discussione alla Camera è focalizzato sui malati di cancro, ma solamente il 25% della popolazione muore di tumore, mentre il 70% muore di malattie croniche o degenerative di tipo prevalentemente internistico o neurologico. Non possiamo concentrare le cure palliative su un quarto dei malati e tralasciare tutti gli altri».
Torniamo alla domanda iniziale: che c’entrano le cure palliative con l’autodeterminazione nel fine vita?
«Se un malato soffre terribilmente a causa di sintomi non curati, non è in grado di prendere decisioni autonome. Riducendo la sofferenza, ogni tipo di sofferenza, consentiamo alle persone di decidere serenamente come affrontare l’ultima parte della propria vita. Morire è un fatto fisiologico, come il nascere».
C’è una bella differenza.
«Meno di quanto si pensi. Vi sono molti punti di contatto tra il venire al mondo e l’uscirne. Nella maggioranza dei casi, ambedue gli eventi avvengono nella maniera migliore se vengono disturbati il meno possibile dai medici. In Olanda, dove è diffusa la pratica di partorire in casa, la mortalità infantile è minore che in Italia. Nelle nascite, come nella morte, esiste poi una percentuale di casi dove l’intervento medico è necessario; e nelle nascite, come nella morte, ci sono casi, molto più rari, dove è necessaria la disponibilità di una struttura altamente specialistica, come i reparti di terapia intensiva neonatale o le unità specializzate di medicina palliativa».
Cosa ne pensa del rifiuto della nutrizione artificiale recentemente espresso da Paolo Ravasin e Paolo di Modica, malati di Sla?
«È un loro sacrosanto diritto. Inoltre, in fase terminale, la nutrizione e l’idratazione artificiali non solo non servono a niente, ma sono addirittura dannose. I fluidi iniettati per via endovenosa, non potendo più essere espulsi perché i reni smettono di funzionare molto prima della morte, si infiltrano nei tessuti e causano edema polmonare con conseguente soffocamento. È per questo che la Società Italiana di Cure Palliative, riferendosi al ddl Calabrò, ha scritto che “questo disegno di legge, è evidente, ci imporrebbe, in ambito palliativo, di attuare delle pratiche contrarie al bene dei pazienti”. Come è possibile che si continui a perseguire un disegno di legge rifiutato dagli specialisti e dalla stragrande maggioranza dei medici, che sarebbe causa diretta di inutili sofferenze in fase terminale e che darebbe ai sondini più diritti che ai malati? Io spero ancora, nonostante le evidenze, che alla fine prevarrà la ragione».